Simulazione della prima prova di Italiano dell’Esame di Stato. Riflessioni e suggerimenti

Simulazione della prima prova di Italiano dell’Esame di Stato. Riflessioni e suggerimenti

Il professor Claudio Giunta commenta le prove di simulazione della prima prova di Italiano dell’Esame di Stato in occasione dell’Esame Day di Deascuola.
Trovate qui i testi per la simulazione della prova di Italiano da condividere con le vostre studentesse e con i vostri studenti e le griglie di valutazione fornite dal professor Alessandro Mezzadrelli.

Proposta A1 – Vittorio Sereni, Amsterdam

La poesia di Vittorio Sereni parla della Shoah, e in particolare dello sterminio degli ebrei europei durante la Seconda guerra mondiale, senza mai citarli direttamente. È ciò che fa spesso la (buona) poesia: anziché raccontare o dichiarare in maniera esplicita, evoca un sentimento, un’immagine, un evento. Quando Sereni va in Olanda, nel 1961, sono passati sedici anni dalla fine della guerra, e il ricordo dello sterminio è ancora fresco. Le studentesse e gli studenti potrebbero dare intanto qualche ragguaglio storico:

  1. quale fu la posizione dell’Olanda durante la guerra (invasa dai tedeschi nel 1940, divenne in sostanza un’appendice dello Stato hitleriano);
  2. quale fu il destino di Anna Frank (nascosta in casa con i suoi genitori, durante l’occupazione tenne un diario che venne pubblicato dopo la guerra e la rese famosa nel mondo. Tuttavia, lei e i suoi famigliari erano morti nel 1945 nel campo di sterminio di Bergen-Belsen). 

Dopo questo inquadramento storico si può passare a una lettura più ravvicinata della poesia. Il titolo fa pensare a un testo dedicato a una città, e di fatto è così: buona parte dei versi sono spesi nella descrizione di Amsterdam, città di ponti e canali. Ma basta leggere con attenzione per capire che il centro tematico del testo non è Amsterdam bensì il ricordo della ragazza Anna Frank, della quale il poeta trova per «caso» l’abitazione, e il cui volto gli sembra di poter ravvisare nei volti dei cittadini olandesi incontrati per strada. La tragedia è stata così enorme che anche dopo più di quindici anni la memoria delle vittime aleggia nell’atmosfera, impregna addirittura gli scialbi colori della città, rendendola insondabile, cioè (forse) impossibile da comprendere appieno, e vertiginosa, cioè tale da dare le vertigini: vertigini dovute al ricordo della tragedia di cui la città è stata testimone.

La Shoah ha ispirato un numero impressionante di opere, e si potrà dunque accennare almeno ai libri celeberrimi di Primo Levi (in particolare Se questo è un uomo, La tregua, I sommersi e i salvati); al saggio di Hannah Arendt La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (sul processo e la condanna a morte del criminale di guerra Adolf Eichmann); ai film Schindler’s List di Steven Spielberg e La zona d’interesse di Jonathan Glazer.

Proposta A2 – Italo Svevo, La coscienza di Zeno

Italo Svevo scrive La coscienza di Zeno nei primi anni Venti, ma il romanzo è ambientato tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, e culmina con la Prima guerra mondiale. Per cominciare, si potrà riflettere sul significato del contesto storico in cui vive Zeno Cosini (Trieste è a quel tempo una città che appartiene all’Impero Austro-Ungarico, vi si parlano il tedesco e l’italiano, ma è anche forte l’influenza delle culture e delle lingue slave; mentre quando viene pubblicato il romanzo, nel 1923, Trieste è ormai una città italiana). Successivamente si potrà riflettere sull’identità ‘mista’ di Italo Svevo; il suo vero nome era Ettore Schmitz, ma scelse lo pseudonimo Italo Svevo per coniugare appunto le sue due identità (svevo significa “proveniente dalla Svevia”, la regione situata nel cuore della Germania: quindi italiano e tedesco insieme – di fatto, Svevo era bilingue, e aveva studiato e lavorato a lungo in Germania).

Il brano proposto parla però della crisi del protagonista del romanzo e del suo tentativo (fallito) di ricorrere alla psicoanalisi che allora muoveva i primi passi in Europa soprattutto per l’influenza delle opere di Sigmund Freud (1856-1939), il grande medico viennese che viene spesso indicato come il fondatore di questa disciplina. La crisi descritta da Zeno Cosini nel suo diario ricorda molto da vicino le pagine di uno dei più bei libri di Freud, Il disagio della civiltà (1930), un breve saggio nel quale analizza il conflitto tra l’individuo e la società mostrando come la civiltà, pur necessaria per la pacifica convivenza umana, generi inevitabilmente infelicità. Secondo Freud, l’essere umano è mosso da due pulsioni fondamentali: Eros (vita, amore, unione) e Thanatos (morte, distruzione, aggressività). La civiltà nasce per contenere queste pulsioni e garantire ordine e sicurezza, ma lo fa imponendo limiti e divieti che reprimono le pulsioni degli individui. Freud osserva che il disagio della civiltà è inevitabile: la felicità piena è incompatibile con la vita in società, ma senza civiltà regnerebbero violenza e caos.

Si potrebbe dire quindi che lo stato di crisi di Zeno Cosini, il suo malessere, non sono una malattia estemporanea, medicabile con la psicoanalisi (scrive infatti: «L’ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima»), bensì la normale condizione dell’essere umano civilizzato, condannato a vivere in una tensione continua tra i suoi desideri e le norme della vita collettiva che frustrano quei desideri.

Proposta B1 – Francesca Strumia, Il significato della libertà di circolazione, spesso fraintesa

Nel 1985, il trattato di Schengen ha istituito un’area senza controlli alle frontiere interne tra gli Stati europei aderenti, facilitando la libera circolazione delle persone. Si è trattato di una piccola rivoluzione nei costumi delle cittadine e dei cittadini europei, che sino ad allora potevano espatriare solo mostrando alla frontiera un documento d’identità. Da quell’anno, la mobilità nel continente è diventata più agevole e più rapida. 

Ma la libertà di movimento all’interno di un continente grande come l’Europa comporta solo vantaggi o anche svantaggi? Gli studenti e le studentesse potrebbero partire da questa domanda e tentare una risposta organizzando la loro argomentazione secondo uno schema binario, di pro e contro. 

Da un lato, si può argomentare che la libera circolazione delle cittadine e dei cittadini europei favorisca l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, contribuendo a ridurre la disoccupazione e a colmare carenze nei vari mercati. Essa inoltre garantisce parità di trattamento per le lavoratrici e i lavoratori europei all’estero in termini di diritti, salari e condizioni lavorative, nonché di accesso all’assistenza sanitaria. Permette ai giovani di partecipare a programmi come Erasmus+, favorendo l’integrazione culturale e la crescita personale. Stimola la competitività delle imprese grazie all’accesso a un bacino più ampio di talenti. Facilita il riconoscimento delle qualifiche professionali tra Paesi membri, rendendo più semplice il trasferimento di competenze. 

Dall’altro lato, però, la libera circolazione all’interno dell’UE può generare squilibri nel mercato del lavoro, perché l’arrivo massiccio di lavoratrici e di lavoratori stranieri crea spesso concorrenza con i residenti per l’accesso a impieghi e servizi. I Paesi economicamente più deboli rischiano di subire una fuga di cervelli, perdendo giovani qualificati che cercano migliori opportunità altrove, rallentando così il proprio sviluppo. Nei Paesi più ricchi, invece, i sistemi di welfare possono essere messi sotto pressione se molti cittadini e cittadine europei si trasferiscono principalmente per usufruire di servizi sociali più vantaggiosi. Le differenze culturali, linguistiche e religiose tra cittadine e cittadini provenienti da Paesi diversi possono causare tensioni sociali, soprattutto se non vengono attuati adeguati percorsi di integrazione: alcune comunità locali possono percepire un cambiamento troppo rapido del contesto sociale e culturale, con conseguenti timori legati alla perdita dell’identità.

A queste considerazioni oggettive, gli studenti e le studentesse potranno aggiungere riflessioni nate dalla loro esperienza personale: se hanno viaggiato all’estero, hanno percepito – durante il soggiorno nel Paese straniero – una limitazione della loro libertà? E pensano che la loro esperienza di viaggiatori sia paragonabile a quella di chi emigra stabilmente per cercare lavoro, provenendo dalle aree più povere del pianeta? In quest’ultimo caso, la “libertà di movimento” è realmente tale?

Proposta B2 – Arundhati Roy, Quando arrivano le cavallette

Negli ultimi anni si sono moltiplicati i segnali che indicano una possibile crisi della democrazia, sia nei Paesi storicamente democratici sia in quelli che si sono dati ordinamenti democratici più di recente. Uno degli indizi più evidenti è la crescente sfiducia nelle istituzioni: molte persone non si sentono rappresentate dai partiti tradizionali, considerati spesso distanti, corrotti o incapaci di rispondere ai reali bisogni della popolazione, e questo si traduce in una partecipazione elettorale sempre più bassa e in una disaffezione generalizzata verso la politica. Le studentesse e gli studenti potranno riflettere, per esempio, sulla situazione italiana: il numero delle cittadine e dei cittadini votanti è sempre più basso, il successo dei movimenti populisti, la violenza del confronto politico in rete e nei talk-show televisivi.

Allo stesso tempo, in alcuni Paesi si assiste all’ascesa di leader autoritari che, pur operando all’interno delle regole democratiche, ne mettono in discussione i principi fondamentali, come l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa o i diritti delle minoranze. In molti Paesi si sta verificando un progressivo accentramento del potere nelle mani di pochi, spesso a scapito del parlamento e degli organi di controllo. 

Un altro problema cruciale è la manipolazione dell’informazione, alimentata dai social media. La diffusione di fake news e la crescente polarizzazione del dibattito pubblico rendono difficile distinguere il vero dal falso e favoriscono un clima di odio e divisione. Questo contesto peggiora la qualità del confronto democratico, che dovrebbe essere fondato su dati, argomentazioni razionali e rispetto reciproco. 

Infine, Arundhati Roy fa un’osservazione interessante. Sono tempi frenetici e rischiosi, in cui occorre agire in fretta, e altrettanto in fretta rispondere ad attacchi (militari, economici, informatici) che possono giungere dall’estero. Ma la democrazia, per sua natura, è lenta e basata sulla discussione: ciò crea una tensione che può spingere parte dell’opinione pubblica a desiderare soluzioni autoritarie, più rapide ed efficaci, nel breve periodo, ma meno rispettose dei processi democratici. Insomma, la democrazia come sistema politico non è affatto morta, ma è sotto pressione, come mai è stata, forse, dagli anni Trenta del secolo scorso (si può fare un paragone tra la situazione attuale e quella dell’Europa e del mondo tra le due guerre – ma badando bene a non cercare false analogie, e a rispettare cioè la specificità delle epoche storiche).

Proposta B3 – Massimo Recalcati, Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore 

Le studentesse e gli studenti potrebbero cominciare inquadrando storicamente il tema del tradimento, magari facendo riferimento a grandi opere letterarie italiane e straniere che mettono l’amore e il tradimento al centro delle loro trame. Per esempio, l’Otello (la tragedia shakespeariana in cui una falsa accusa di tradimento porta Desdemona alla morte e Otello, suo marito, al suicidio); oppure Madame Bovary di Flaubert (Emma Bovary tradisce il marito con vari amanti, grazie ai quali spera di salvarsi da una grigia vita provinciale); oppure Anna Karenina di Tolstòj (Anna, la protagonista, tradisce il marito, Alexèj con il conte Vronskij). Sono tre grandi libri che trattano il tema del tradimento e del perdono in maniera diversa, e diversamente interessante: ma è notevole il fatto che il tradimento femminile (anche quando immaginario, come nel caso di Desdemona) porti alla morte delle protagoniste – sino a non molto tempo fa, mentre un certo libertinaggio era considerato ammissibile per gli uomini, alle donne si chiedeva fedeltà assoluta allo sposo. Insomma, il codice del tradimento e del perdono differiva, a seconda dei sessi: più costrittivo nei confronti delle donne, più indulgente nei confronti degli uomini. Le cose sono cambiate, negli ultimi anni? Il valore della fedeltà a un partner è meno solido di un tempo? Se è così, le conseguenze di questo fatto sono soltanto positive (maggiore libertà, diritto per entrambi i sessi di cercare soddisfazione anche al di fuori del rapporto di coppia) o anche negative (labilità dei legami interpersonali, crisi della famiglia)? 

Proposta C1 – Jonathan Bazzi, «Evito di uscire di casa da mesi: ordino la spesa, faccio yoga online, uso lo smartphone 10 ore al giorno. Non sono scontento, ma…»

C’è un noto libro del sociologo americano Robert Putnam che s’intitola Bowling Alone, che potremmo tradurre con “Giocare a bowling da soli”. Ovviamente è un paradosso: non si può, non ha senso giocare a bowling da soli, bisogna essere almeno in due o in quattro. Ma, dati alla mano, in questo saggio Putnam documenta una tendenza che pare particolarmente marcata nella vita americana, e cioè quella a passare sempre meno tempo in compagnia degli altri (famigliari, amici, compagni di scuola, colleghi di lavoro) e sempre più tempo da soli. A volte per necessità (si diffonde sempre di più il lavoro a distanza, fatto cioè da casa davanti a uno schermo), altre volte per scelta. Insomma, la nostra vita iper-connessa, soprattutto grazie a internet, rischia di ottenere un effetto paradossale: farci sentire, e farci essere sempre più soli

Le studentesse e gli studenti potrebbero riflettere su due aspetti della questione. Da un lato, si può parlare del concetto di solitudine nel passato, quando gli spazi per l’intimità erano pochi, e la solitudine era vista come la vocazione e il rifugio del saggio. Per esempio, nel breve trattato intitolato De vita solitaria, Francesco Petrarca fa una lunga rassegna dei grandi spiriti dell’antichità che hanno voltato le spalle alla società e si sono ritirati in qualche plaga deserta (i santi cristiani) o in qualche amena tenuta di campagna, o per lo meno in una stanza appartata della casa, a meditare (i filosofi greci, e poi Cicerone, Seneca). Dopodiché descrive in maniera molto vivida la giornata dell’uomo indaffarato, piena di ansie e fastidi, mettendole accanto, e benedicendo, la giornata dell’uomo otiosus che ha scelto una solitudine fatta di studio, contemplazione, preghiera. È una giornata, quella dell’otiosus, che inizia prima ancora del sorgere del sole, com’era consuetudine a quell’epoca, e il lettore odierno non fa fatica a credere che quella effettivamente dovesse essere la routine di Petrarca; una routine, si capisce, garantita, dai proventi dei suoi benefici ecclesiastici, che gli consentivano di non lavorare: «Si alza l’uomo solitario e tranquillo, sereno, ristorato da un conveniente riposo, dopo aver non interrotto, ma terminato il suo breve sonno, e destato talvolta dal canto del notturno usignolo […]. Guardando poi il cielo e le stelle, e sospirando con tutta l’anima al signore Dio suo che ha lì sua dimora, e dal luogo del suo esilio pensando alla patria, si dedica subito a qualche bella e piacevole lettura; e così, nutritosi di cibi deliziosi, attende con una grande pace nell’anima la prima luce che sta per venire».

Dall’altro lato, si può partire da un brano come questo di Petrarca (o dalle pagine dei grandi scrittori classici che Petrarca cita, e che come lui elogiano la solitudine) per riflettere su come la nozione di solitudine sia cambiata nel nuovo mondo modellato da internet. L’ideale antico dell’uomo saggio che vive in solitudine è ancora un ideale plausibile? Può raggiungerlo soltanto chi è ricco abbastanza da potersi permettere di non lavorare? La solitudine contemporanea – al contrario di quella descritta e lodata da Petrarca – non genera forse le nevrosi descritte nel brano di Bazzi citato nella traccia? E qual è la sua personale esperienza? Nell’adolescenza si cerca la compagnia degli altri, ma spesso si ha bisogno di stare da soli: che cosa dà, e che cosa toglie, la continua condivisione con gli altri che – per esempio – gli smartphone non solo consentono ma impongono a chi li adopera? O detto diversamente: la socialità digitale ci sta facendo diventare antisociali?

Proposta C2 – Giovanni De Mauro, Nuove

Come prima cosa, le studentesse e gli studenti che svolgono questo tema possono riflettere su un dato di fatto: l’autore di questo articolo, Giovanni De Mauro, direttore di «Internazionale», è un uomo del secondo Novecento: è nato, cioè, e cresciuto in un mondo pre-informatico, un mondo in cui si leggevano libri e giornali, si andava al cinema e si guardava la TV, si ascoltavano dischi. Di solito, i nati prima della rivoluzione informatica guardano con un po’ di preoccupazione ai mutamenti tecnologici. Invece in questo caso De Mauro adotta un punto di vista fiducioso e ironico nei confronti del passato: le invenzioni sono sempre state accolte con sospetto, quando non addirittura con terrore, non solo dalle persone semplici ma anche dagli intellettuali; anche ciò che oggi ci fa tanta paura e ci allarma, un giorno non lontano ci sembrerà assolutamente normale. 

In secondo luogo, le studentesse e gli studenti potranno ampliare l’elenco di opinioni che meriterebbero di finire nel Pessimists archive. Quasi ogni sviluppo nel campo della comunicazione, dal telegrafo a internet, ha destato preoccupazioni nei contemporanei. Il papa – scrive De Mauro – si era pronunciato contro «l’abuso di ascolto radiofonico». Ma nel 1945 uno studioso laico e illuminato come Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica italiana, scriveva sulla radio queste parole: «Non sono un ammiratore della radio. Da molti anni, da quando sullo orizzonte salì la maligna stella del conformismo politico, che è necessariamente altresì conformismo o totalitarismo spirituale morale religioso ed economico, pensai che la radio era un’invenzione del demonio, intento a trovare il mezzo di abbrutire l’uomo». Che cosa avrebbe detto della televisione? E degli smartphone. 

Infine, le studentesse e gli studenti potranno formulare le loro opinioni. De Mauro ha ragione? Ovvero: è sempre la stessa storia, la paura per quelle tecnologie che non conosciamo ancora, e che minacciano di mutare le nostre abitudini? Oppure ci troviamo di fronte, oggi, a un mutamento radicale nella gestione e nella comunicazione delle informazioni, mutamento tanto repentino e profondo da giustificare il pessimismo degli osservatori? Facile trovare spunti per una riflessione del genere osservando il modo in cui adoperiamo gli smartphone, che hanno davvero cambiato il nostro modo di vivere a vita; e il modo in cui ci serviamo dell’intelligenza artificiale (ChatGPT, Gemini, DeepSeek ecc…). Anche le nostre paure attuali faranno sorridere, un giorno, quando i posteri le leggeranno nel Pessimists Archive?

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