La nuova rubrica Insegnare latino oggi offre spunti di riflessione e suggerimenti utili per una didattica coinvolgente e innovativa, ma soprattutto per ridare centralità a una materia così importante. Grazie al contributo di docenti universitari e di esperti, ogni mese viene lanciata una proposta utile per la discussione e il lavoro con le classi del biennio e del triennio.
Lo studio dei testi latini, della loro storia e della loro fortuna non è fine a sé stesso, ma ci consente di raggiungere una piena consapevolezza di tutto ciò che concorre a definire la nostra identità. Alla riflessione sulla comune radice linguistica e culturale di gran parte dell’Europa e sui modi più opportuni di salvaguardarla miravano, negli anni Ottanta del secolo scorso, i Colloquia Didactica Classica europei, in cui si discuteva sui metodi più efficaci di presentare agli studenti europei un corpus di autori latini. Non bisogna dimenticare, d’altronde, che sino all’inizio del XIX secolo l’Europa intera ha continuato a esprimersi in latino e che, in particolare, durante il Medioevo e il Rinascimento la lingua latina e le lingue locali hanno proceduto di pari passo. Fino a tutto il Settecento, il latino ha avuto il ruolo di forza unificatrice da un lato, sovranazionale dall’altro.
In quanto espressione linguistica il latino non è mai morto: ha solo subìto nel corso dei secoli un’ovvia evoluzione e continua a vivere nelle lingue che noi stessi parliamo. La conoscenza della lingua latina, quindi, ci permette una migliore comprensione del nostro sistema linguistico, ma ci avvicina anche a quei testi antichi che veicolano la lingua e la cultura in cui poniamo le nostre radici e che ci permettono di parlare di una identità comune.
Diventa evidente dunque l’importanza della traduzione. Già dai Latini il vertere non è stato mai considerato un banale tentativo di rendere parola per parola gli originali greci, ma per loro tradurre equivaleva a interpretare. Quando Cicerone traduce i due discorsi più noti di Eschine e di Demostene (De optimo genere oratorum, 13-14) confessa di non averli resi “da traduttore (ut interpres), bensì da oratore, con le loro frasi e le loro figure di parole e di pensiero, e con vocaboli adatti alle nostre abitudini. In ciò – aggiunge Cicerone – non ho ritenuto necessario rendere parola per parola (verbum pro verbo), ma delle parole ho conservato per intero il carattere e il senso”. Sarà poi San Girolamo nella sua epistola a Pammachio (De optimo genere interpretandi, 57, 5) a sviluppare un’ampia riflessione intorno alle tesi ciceroniane e a notare la difficoltà di conciliare due lingue: “è arduo che concetti espressi egregiamente in una lingua diversa mantengano la stessa perfezione in una traduzione (in translatione). Un’idea è indicata in modo appropriato da un’unica parola: ma io non ho a disposizione un termine della mia lingua con cui esprimerla e, mentre cerco di rendere il senso in modo compiuto, a fatica riempio un breve spazio con una lunga circonlocuzione. Si aggiungono gli scogli degli iperbati, le differenze dei casi, le variazioni delle figure e, per finire, l’essenza propria e per così dire indigena di una lingua: se traduco parola per parola (si ad verbum interpretor), ne risulta un suono assurdo; se, costretto dalla necessità, introduco un qualche cambiamento nella costruzione (in ordine) o nello stile (in sermone), sembrerà che mi sia allontanato dai doveri di traduttore (ab interpretis officio)”.
Anche con la nascita delle lingue nazionali gli scritti degli antichi auctores hanno mantenuto una perenne vitalità grazie ai lettori delle epoche più diverse e hanno costituito le fondamenta della nostra identità: perché la nostra cultura resta in massima parte quella che i latini ci hanno trasmessa; è divenuta a tal punto coscienza comune, che ancor oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, noi continuiamo a pensarla e a rielaborarla.
La nostra identità – sia ben chiaro – non equivale a superiorità nei confronti di altre, ma deve costituire una fonte continua di dialogo; è il nostro punto di forza, perché rappresenta la base che ci accomuna, ma di essa non si deve avere una concezione statica, come se fosse la somma di tradizioni e di idee che si ereditano e si accettano passivamente: per divenirne realmente padroni e per evitare che rimanga improduttiva dobbiamo infonderle continuamente una linfa nuova. È quello che fecero i Romani nell’ereditare la cultura greca; la loro lezione fu ben capita dell’Umanesimo, quando il ritorno al passato non ebbe mai il carattere di una nostalgica riesumazione di un periodo ideale, ma quello di un forte impulso al progresso.
La nostra identità, dunque, sopravvive alimentandosi del passato, ma deve trasformarlo continuamente. Nel 1944, in un’Europa lacerata dalla guerra, Thomas S. Eliot, nel suo Presidential Address alla Virgilian Society, celebrò l’Eneide come opera, pur così lontana nel tempo, pienamente attuale perché sempre idonea a rappresentare l’orrore per le guerre, la desolazione per tante giovani vite troncate, l’imbarazzo dei vincitori nei confronti degli sconfitti, la pietà per i vinti. Anche nei nostri giorni tormentati e troppo spesso privi di umanità, il poema virgiliano sta sempre lì, a insegnarci che quanti fuggono dalle loro terre devastate – come dalle macerie di Troia fuggirono Enea e i suoi – non possono essere respinti ed emarginati, ma vanno accolti e integrati.
I classici non perdono mai la loro attualità, e questa loro ininterrotta vitalità ci insegna a tener conto non solo del lettore erudito, ma anche e soprattutto del lettore comune. Giuseppe Pontiggia, che non nascose mai la sua ammirazione per la cultura greca e latina, sosteneva che i classici vanno letti “per quello che il testo ci dice al di là di quanto l’autore voleva dire […], perché il problema centrale è il nostro rapporto con il testo”. Non si tratta di un invito alla facile divulgazione, ma di un modo per ribadire che il momento essenziale è quello del contatto personale col testo, per tutto quello che offre e per tutto quello che il lettore riesce a scorgervi.
La tradizione e la memoria dell’antico vanno continuamente riconquistate e riformulate, grazie ai classici che continuano sempre a parlarci: perché ogni epoca li intende alla luce dei propri criteri di giudizio e si giova dei loro contenuti non solo per capire il presente, ma anche per immaginare il futuro.