Quattro anni fa il Nobel l’aveva vinto uno strano americano, Bob Dylan. Strano perché Dylan è un paroliere e un cantante, ed era la prima volta che l’Accademia di Svezia premiava qualcuno che non era, in senso stretto, uno scrittore o una scrittrice. Quest’anno torniamo, per così dire, alla normalità con un’altra americana che – al contrario di Dylan – è pochissimo nota in Italia.
Louise Glück è nata a New York nel 1943, da genitori di origini ungheresi. Nel 1993 ha vinto per le sue poesie uno dei più prestigiosi premi americani, il Pulitzer; e nel 2003 ha ricevuto una delle massime onorificenze in campo culturale, ovvero la nomina a ‘Poeta laureato’ conferita dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. E ora il Nobel.
Delle sue poesie esistono poche traduzioni italiane: una delle sue prime raccolte, L’iris selvatico, è stata pubblicata da Giano (Varese) nel 2003; un’altra, Averno, dalla libreria Dante & Descartes di Napoli nel 2019. Lunga vita ai piccoli editori! Su YouTube si trovano alcune sue interviste e letture (in inglese). Per esempio:
Nella nostra Antologia per il biennio delle scuole superiori Lettere al futuro (Garzanti Scuola 2020) c’è una sezione che s’intitola “10 poesie molto belle, più una”. La scuola ci abitua a pensare per temi, per correnti, per generi, ma poi la verità è che la letteratura entra a fatica nelle scatole, e certe cose sono semplicemente, appunto, belle. Per aprire la sezione abbiamo scelto proprio un testo di Louise Glück. Ecco dunque la splendida, splendida Nostos, con un brano del commento che trovate in Lettere al futuro.
Louise Glück, Nostos
C’era un melo nel cortile
–saranno forse
quarant’anni fa – dietro,
solo prati. Ciuffi
di croco nell’erba umida.
Stavo a quella finestra:
fine aprile. Fiori di primavera
nel cortile del vicino.
Quante volte, davvero, l’albero
è fiorito nel giorno del mio compleanno,
il giorno esatto, non
prima, non dopo? L’immutabile al posto
di ciò che si muove, di ciò che evolve.
L’immagine al posto
della terra inarrestabile. Che cosa
so di questo luogo,
il ruolo dell’albero per decenni
preso da un bonsai, voci
che vengono dai campi da tennis
–Terreni. L’odore dell’erba alta, tagliata di fresco.
Quello che uno si aspetta da un poeta lirico.
Guardiamo il mondo una volta, da piccoli
.Il resto è memoria.
There was an apple tree in the yard —
this would have been
forty years ago — behind,
only meadows. Drift
sof crocus in the damp grass.
I stood at that window:
late April. Spring
flowers in the neighbor’s yard.
How many times, really, did the tree
flower on my birthday,
the exact day, not
before, not after? Substitution
of the immutable
for the shifting, the evolving.
Substitution of the image
for relentless earth. What
do I know of this place,
the role of the tree for decade
staken by a bonsai, voice
srising from the tennis courts
—Fields. Smell of the tall grass, new cut.
As one expects of a lyric poet.
We look at the world once, in childhood.
The rest is memory.
Louise Glück, Meadowlands, Harper Collins, New York 1996 [trad. C. Giunta].
Una donna torna, dopo molti anni («saranno forse / quarant’anni fa») nei luoghi della sua infanzia. Ricorda il semplice paesaggio che vedeva dalla sua finestra quand’era bambina, e ricorda anche una circostanza bizzarra: l’albero davanti a casa che fioriva sempre, immancabilmente, il giorno del suo compleanno, come per dare un segno di persistenza, di continuità, mentre tutto intorno a lei si trasformava (e mentre lei stessa si trasformava, crescendo).
Ora tutto è cambiato: la bambina è sparita, la voce che parla è quella di una donna matura. «Il ruolo dell’albero per decenni / preso da un bonsai» vuol dire forse che, una volta lasciata la campagna in cui ha vissuto da bambina, ha dovuto vivere in un appartamento in città, e qui accontentarsi di un albero in miniatura, uno di quei bonsai, appunto, che andavano di moda alcuni anni fa. Poi le voci di giocatori di tennis (i terreni coltivati che c’erano una volta sono diventati dei campi di gioco) la riportano al presente, ai rumori e agli odori (l’erba appena tagliata) che la circondano. Poi c’è una constatazione quasi ironica: tutto questo, questa natura, è, commenta, «quello che uno si aspetta da un poeta lirico». E poi ci sono i due versi finali, che – ed è questa la meraviglia di questa poesia – non sembrano avere nulla a che fare con quelli che li precedono immediatamente. Non stava descrivendo la casa della sua infanzia? Non stava parlando di giocatori di tennis? Che cosa vuol dire che «Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. / Il resto è memoria»? Forse che le impressioni dell’infanzia sono incancellabili? Forse che per quanto ci sforziamo non riusciremo mai a cambiare la visione delle cose che ci siamo fabbricati nei primi anni di vita? Inutile parafrasare: la bellezza di questi due ultimi versi sta proprio in ciò che suggeriscono senza dirlo esplicitamente, nella rivelazione che in una manciata di parole ci lasciano intravedere.
Antologia per il biennio delle scuole superiori
Claudio Giunta, Nora Calzolaio, Bianca Barattelli
Lettere al futuro
Garzanti Scuola