Volo spaziale e volo suborbitale

Volo spaziale e volo suborbitale

Anche se di recente assistiamo a frequenti lanci di turisti spaziali che abbandonano la Terra per qualche minuto, raggiungere fugacemente lo spazio o restarci in orbita permanentemente sono due concetti profondamente diversi. Nel primo caso il nostro razzo compie un volo parabolico – non diverso se non per l’altezza raggiunta – da quello di un sasso lanciato verso l’alto. Questa traiettoria, seppure in caduta libera e dunque in assenza (per chi si trova all’interno della capsula spaziale) apparente di gravità è destinata a ritornare a terra dopo qualche minuto. Per entrare in orbita, invece, serve una maggiore energia, circa dieci volte di più. Questa spinta è però necessaria a dirigere la navicella in direzione orizzontale piuttosto che in verticale per farci acquisire energia cinetica.

Fu Isaac Newton il primo a comprendere che, teoricamente, sparando orizzontalmente con un cannone sufficientemente potente, si poteva impartire al proiettile una velocità tale conferirgli una gittata talmente lunga da farlo cadere “oltre l’orizzonte“. Questa caduta continua indefinitamente, dato che non vi sono più ostacoli a bloccare la palla di cannone, che si trova quindi in orbita. Anche la Luna è dunque in caduta libera attorno alla Terra: in termini moderni diciamo che la forza centrifuga (ossia diretta lontano dalla Terra) generata dalla velocità orizzontale bilancia l’attrazione gravitazionale (diretta verso il centro della Terra). Questo vale per un satellite che viaggia intorno ad un pianeta, per pianeti nel loro moto di rivoluzione intorno al Sole, e anche per il Sole e il sistema solare che orbita nella Via Lattea, approssimativamente intorno al centro galattico.

L’esperimento ipotetico di Newton utilizzava una palla di cannone, non soggetta – una volta sparata – a modifiche della sua spinta iniziale e traiettoria orbitale. Il lancio doveva quindi aver luogo dalla cima di una montagna molto elevata per evitare di urtare ostacoli sul suo cammino. In ogni caso, come mostra la figura, la palla di cannone, seguendo un’orbita ideale, avrebbe però incontrato nuovamente la montagna dopo aver completato la sua prima orbita. I razzi invece possono – e devono – modificare continuamente la loro traiettoria durante il volo, sia in fase ascensionale che per compiere manovre più complesse come l’attracco con un altro veicolo spaziale.  

Dopo aver lasciato gli strati più densi dell’atmosfera, infatti, i razzi deviano seguendo una traiettoria sempre più inclinata, alla fine orizzontale: ciò consente loro di accumulare la velocità e dunque l’energia cinetica necessaria per entrare stabilmente in orbita. Ad esempio, per un’orbita a circa 300 km di altitudine, la velocità del razzo è circa 8 km/s e il rapporto tra l’energia cinetica (derivante dalla velocità) e l’energia potenziale (necessaria per sollevare il razzo) è di circa 1 a 10.

Questa enorme sete di energia non è richiesta per i voli suborbitali, che utilizzano razzi come il Dragon, la Soyuz e Ariane o veicoli ibridi come la SpaceShip One. Quest’ultima è infatti agganciata ad un aereo, che la porta a vari chilometri di altezza, e lì accende il suo razzo, piccolo ma sufficiente per raggiungere il limite dello spazio, circa 100 km di altitudine. 

Anche se la SpaceShip One non è in grado di effettuare operazioni come il trasporto di satelliti o il supporto alla Stazione Spaziale Internazionale, il suo design pionieristico ha aperto nuove possibilità per il volo spaziale commerciale e ha rappresentato un enorme passo avanti nel rendere lo spazio più accessibile non solo alle grandi agenzie spaziali ma anche all’industria privata. Il volo suborbitale, innovativo e più economico rispetto ai razzi convenzionali, è infatti ideale per missioni turistiche o sperimentazioni scientifiche che non necessitano di una permanenza prolungata nello spazio. 

Una volta completata la salita, la SpaceShip One utilizza l’attrito con l’atmosfera per rallentare, adottando un sistema che inclina le ali e rende il veicolo simile a una foglia che cade, oscillando delicatamente durante la discesa. Questo permette di ridurre l’impatto della velocità e di garantire un rientro sicuro prima di atterrare su una pista, proprio come un normale aereo. Altri veicoli suborbitali come la Blue Origin sono muniti di paracadute e/o retrorazzi, utilizzati per controllare la loro discesa e garantire un atterraggio morbido. 

Rientrare dallo spazio da un volo orbitale accendendo i retrorazzi non è però possibile: infatti frenare per cancellare i vari km/s di velocità orbitale richiederebbe una quantità enorme di carburante, che dovrebbe essere trasportata nello spazio, limitando il carico utile della missione. Per questo motivo, è necessario sfruttare l’attrito con l’atmosfera. Tuttavia, l’enorme velocità e l’energia associata richiedono robusti scudi termici che siano in grado di resistere a temperature di migliaia di gradi.  Questo è il metodo seguito delle gloriose capsule Apollo, dalla Soyuz o dal crew Dragon, aiutandosi poi con paracadute e retrorazzi nell’ultimo tratto della traiettoria di rientro ed atterrare o ammarare a seconda del tipo di missione. Navicelle come lo Space Shuttle statunitense o il Buran russo avevano un profilo di rientro simile, ma erano poi in grado di atterrare come aviovelivoli: lo Shuttle come un aliante e il Buran come un aereo.

La caduta libera dei corpi in orbita fa sì che gli astronauti a bordo della Stazione Spaziale si trovino in un regime solo apparente di assenza di gravità. Sono infatti ancora soggetti alla gravità terrestre, che continua ad agire su di loro, ma viene controbilanciata dalla forza centrifuga generata dalla loro elevata velocità orbitale. Le due forze, gravità e forza centrifuga, si annullano quasi completamente. Tuttavia, rimangono piccole accelerazioni dovute a fattori come le vibrazioni della struttura della stazione e l’attrito con gli strati più alti dell’atmosfera. In media, l’accelerazione percepita è pari a circa un milionesimo di quella terrestre, motivo per cui si parla di microgravità. Questo ambiente consente loro di condurre esperimenti scientifici impossibili da realizzare sulla superficie terrestre e offre una piattaforma unica per lo studio degli effetti della quasi assenza di gravità su organismi viventi, materiali e processi fisici.

Attività in classe: 
Installate sul vostro smartphone una app (come, ad esempio, Phybox) in grado di misurare la gravità terrestre e l’accelerazione cui è soggetto il vostro telefono. Misurate dunque la gravità, la direzione, l’intensità mentre lo muovete, annotando intensità e verso 
Per far svanire apparentemente la gravità potete poi lasciare cadere lo smartphone (assicurandosi che sul pavimento vi sia un cuscino o qualcosa di soffice) e vedere che questa si riduce a zero mentre il telefono cade, per poi tornare quando tocca terra.  

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