L'insostenibilità del traffico satellitare

L'insostenibilità del traffico satellitare

IIl problema della congestionedi satelliti e detriti nelle orbite terrestri più basse si fa sempre più pressante. Se ne discute da molti anni, ma per affrontarlo è necessario uno sforzo collettivo, che può coinvolgere anche studenti e comuni cittadini.

A causa della frantumazione in orbita di un satellite russo, nove astronauti della Stazione Spaziale Internazionale sono costretti, come misura precauzionale, a ripararsi nei rispettivi veicoli di appartenenza attraccati alla ISS. Intanto a Terra, dalla sala di controllo della missione, si continua a monitorare l’andamento dei detriti e l’eventuale rischio di impatti pericolosi per la strumentazione, mentre i cosmonauti attendono pazienti di rientrare e riprendere tutte le attività previste. 
Può sembrare una scena del noto film di fantascienza Gravity, eppure è esattamente quello che è successo lo scorso giugno 2024, quando il satellite russo Resurs-P1, in disuso dal 2022, si è in effetti disintegrato, producendo più di cento detriti, grandi abbastanza da essere tracciati, mentre era in viaggio su un’orbita più bassa di circa 50 Km rispetto a quella della ISS. 
Dopo solo un’ora di attesa, per fortuna, la NASA ha potuto dare il cessato allarme, consentendo ai cosmonauti della missione internazionale di tornare a bordo.  

Se si fosse trattato del film di Alfonso Cuaron del 2013, gli astronauti si sarebbero invece ritrovati scaraventati nello spazio, alla ricerca di strumenti e pezzi di ricambio utili per tornare a casa, persi in una sorta di discarica cosmica. Tra questo e altri discutibili espedienti narrativi ben poco scientifici – come i disinvolti e improbabili spostamenti degli astronauti tra un’orbita e l’altra, spinti da un jet pack – in questa storia di fantascienza, che ha la gravità come protagonista, si intravedono però anche i tratti di un problema reale, ipotizzato, temuto e discusso da almeno mezzo secolo, importante da considerare quando si studiano le dinamiche dei satelliti artificiali: l’addensarsi del traffico in orbita.

Dalla sindrome di Kessler alla nuova corsa allo spazio

Parlando di satelliti artificiali, anche in classe, il nostro immaginario comune ci suggerisce subito quelli più noti e popolari, come i satelliti metereologici GEOS, quelli per la navigazione GPS o i primi, pioneristici oggetti lanciati in orbita durante gli anni della corsa allo spazio, a cominciare dal pionieristico Sputnik nel 1957. Oppure come la stessa Stazione Spaziale Internazionale, un satellite lungo circa 100 m per 80 di larghezza, l’unico in grado di ospitare esseri umani e che è anche uno straordinario laboratorio scientifico, dove gli astronauti sembrano fluttuare senza peso, anche se la gravità si fa sentire anche lì, per via del moto circolare uniforme attorno al pianeta. Spesso li pensiamo del tutto isolati e liberi di viaggiare indisturbati, eppure basta dare uno sguardo a mappe e piattaforme come Spacebook per rendersi conto che non c’è poi tutto questo spazio a disposizione dei satelliti, anzi: il crescente affollamento che si registra in orbita è ormai tra le prime preoccupazioni dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e della americana NASA, anche perché un ambiente congestionato di satelliti facilita e alimenta l’accumulo di pericolosa spazzatura spaziale, ovvero di oggetti rimasti in orbita ma senza più una funzione utile, che non fa che peggiorare le cose.  
Era il 1978, quando l’astrofisico e consulente NASA Donald J. Kessler per primo ipotizzò il rischio concreto che un effetto domino di frammentazioni e collisioni multiple, causate da un eccessivo accumulo di detriti in orbita, avrebbe di fatto reso insostenibile, se non impossibile, il lancio e la navigazione di nuovi razzi, satelliti e strumenti vari, compromettendo di conseguenza la gestione delle missioni spaziali e delle comunicazioni satellitari. 
Oggi non siamo ancora davvero intrappolati nella sindrome di Kessler, come fu subito ribattezzato quell’incredibile e temibile scenario, che tuttavia non è rimasto solo un’ottima ispirazione per gli scrittori di fantascienza, a quanto pare.  Secondo le ultime valutazioni elaborate dello Space Debris Office dell’ESA, a fronte di circa 12mila satelliti lanciati dallo Sputnik in poi, si sono prodotti rottami per migliaia di tonnellate: vagano, come proiettili pronti a colpire a 8 Km/sec, più di 30mila frammenti con dimensioni superiori a 10 cm, alcuni dei quali piuttosto grandi, come i residui degli ultimi stadi di lancio di missili o anche interi satelliti in disuso, e decine di milioni di pezzi più piccoli, fino a raggiungere il millimetro. 

Questi residui sono il prodotto di decenni di incidenti, centinaia di guasti, esplosioni, collisioni, abbandoni in orbita, e tutti insieme vanno a formare una sorta di densa nuvola di spazzatura spaziale in espansione. I detriti più piccoli, difficili da individuare, sono naturalmente i più insidiosi. Una semplice scheggia di vernice, per esempio, può danneggiare i finestrini della ISS o il vetro di un casco, un bullone di qualche grammo può bucare i pannelli solari di satelliti funzionanti e attivi o penetrare negli ambienti di veicoli abitati dagli astronauti. 
Ad ogni modo, inoltre, qualunque collisione a velocità di decine di chilometri l’ora può agire da innesco per ulteriori impatti e frammentazioni a cascata, proprio come temuto da Kessler. 
Questi numeri non dovrebbero sorprendere, considerando che da sempre le orbite più appetibili a scopo scientifico o commerciale sono le cosiddette basse (o LEO – Low Earth Orbit, che vanno dai 200 ai 2000 Km di quota) e le geostazionarie (da 2000 a 35.786 Km), dove il satellite che vi orbita rimane sopra lo stesso punto sull’equatore, rendendole quindi molto utili per la trasmissione di segnali. Eppure, il crescente ingorgo orbitale non è stato finora gestito in modo adeguato, tanto da spingere la comunità scientifica internazionale a lanciare un appello sulle pagine di Science nel 2023, per provare ad accelerare verso un intervento globale risolutivo, che preveda norme di riferimento comuni. 

Intanto, il tema diventa sempre più attuale e urgente, spesso in cima ai trend mediatici, basti pensare ai dibattiti sulla missione Starlink di SpaceX, dotata già di più di 7000 satelliti, mentre si prevede un incremento complessivo, tra agenzie spaziali e operatori privati, di decine di migliaia di unità orbitanti di qui al 2030. Una “costellazione” da far impallidire, letteralmente, la visione notturna del cielo stellato, minacciando così anche la ricerca astronomica, a causa dell’inquinamento luminoso. 
Come si può gestire un problema epocale di questa portata, in continua crescita? 
Le strategie non mancano, alcune delle quali possono coinvolgere anche comuni cittadini e studenti.

Come ripulire le orbite: innovazione e impegno collettivo

La priorità è intanto quella di non produrre nuovi rifiuti, pianificando prima e controllando la fase terminale dei satelliti, ma anche poter smaltire il più possibile quelli esistenti. L’ideale è riuscire a far arrivare i satelliti dismessi o i rottami più grandi ad una quota di circa 300-250 Km da Terra, dove si inizia a sentire l’attrito dell’atmosfera, che attira il detrito e lo fa decadere dall’orbita “LEO”, bruciandolo o facendolo precipitare (meglio se in mare aperto). A questo scopo, in programmi mirati dell’ESA, come il progetto e.Deorbit e il nuovo ClearSpace-1, si sviluppano delle tecnologie in grado di raccogliere i detriti e collocarli in rientro controllato in atmosfera o abbandonarli in sicurezza nelle cosiddette orbite cimitero. Si tratta di veri e propri satelliti “spazzini”, dotati per esempio di bracci meccanici rimorchiatori o di innovative reti di cattura simili a quelle dei pescatori. 
Tuttavia, ci vuole ancora tempo per soluzioni di questo tipo, la strategia più efficace per ora rimane il monitoraggio da Terra, sia dei satelliti che dei rifiuti. Per evitare un impatto è infatti necessario censire il maggior numero di detriti e satelliti e conoscerne con esattezza lo stato, ovvero la sua posizione e velocità. Nei centri di tracking spaziale, tra cui l’europea Space Surveillance and Tracking Segment (SST) dell’ESA, vengono applicate avanzate tecniche statistiche di propagazione orbitale agli stati dei corpi orbitanti, registrati in cataloghi costantemente aggiornati, per studiare l’evoluzione delle loro traiettorie e per prevedere l’eventualità di impatti e rientri incontrollati. 
L’accuratezza di queste stime migliora sensibilmente all’aumentare dei dati a disposizione e per questo, a supporto dell’EU-SST, ci sono 60 stazioni di radar, telescopi e rilevatori laser, tra cui nove italiani; tuttavia, di solito non si può intervenire nei tempi stretti dettati da un’emergenza improvvisa e le manovre di spostamento dei satelliti possono essere a loro volta rischiose, oltre che piuttosto costose. Inoltre, se si tratta di seguire i detriti più ridotti, il monitoraggio si complica ulteriormente. 

Un’alternativa interessante può essere il contributo di osservazioni astronomiche più semplici e amatoriali, ovvero attraverso progetti di citizen scienze

Non si tratta di una vera novità in questo campo, del resto già negli anni ‘60 lo storico progetto americano Operazione Moonwatch, in piena guerra fredda, radunò astrofili e studenti di diversa provenienza in tutto il mondo, per invitarli a raccogliere informazioni inerenti i primi satelliti artificiali già in orbita. Più di recente, risultati importanti sono stati ottenuti da società astronomiche amatoriali inglesi o proprio in Italia con il progetto Prisma dell’INAF per lo studio delle meteore: grazie a una rete di circa 50 camere fish-eye installate in osservatori astronomici ma anche in scuole, musei o circoli culturali, sono stati rilevati con grande precisione (fino a 500 m)  i tracciati di oggetti finiti nelle ultime orbite, per esempio durante il rientro della Stazione Spaziale Cinese Tiangog-1 nel 2018, a cui sono seguiti progetti di sorveglianza in collaborazione con L’Agenzia Spaziale Italiana e lo IADC, il Comitato inter-agenzia dedicato a questo.

Progetti del genere ci ricordano che è fondamentale arrivare presto ad una consapevolezza collettiva, per evitare che le conseguenze delle nostre azioni superino dei limiti ambientali invalicabili anche in orbita. Si può cominiciare subito già a scuola, le risorse e gli strumenti disponibili non mancano.

Attività:
Consulta le mappe navigabili disponibili sul portale spacebook.com, che fornisce informazioni su satelliti e detriti in orbita: quali sono i punti orbitali più affollati, in corrispondenza di quali aree della superficie terrestre? Si riescono a individuare i satelliti delle principali missioni ESA o NASA?
Seleziona un gruppo di punti secondo te interessanti e riporta in una tabella i dati disponibili sul sito che ritieni utili per determinare il rischio di collisione (per es. quota, velocità, attività in corso eccetera)
– Fai una ricerca su altri progetti di citizen science in corso dedicati alle osservazioni astronomiche: che strumenti e materiali sono necessari? La tua scuola potrebbe essere coinvolta in uno di questi?


“La fisica dei satelliti artificiali è tra gli argomenti affrontati nel nuovo corso Sistema Fisica – I Colori dell’Universo di Bocci, Malegori, Milanesi, Toglia (Petrini, 2025)” 

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