Giovedì 25 marzo 2021 alle 15 Claudio Giunta e Marco Grimaldi dialogano sul tema ‘Perché leggiamo ancora la Commedia?‘ Come invito e premessa all’incontro, ecco un brevissimo contributo relativo al ‘femminile’ nell’opera di Dante.
Se guardiamo al cuore e al cervello, Dante Alighieri ha avuto una traiettoria di vita diversa, anzi quasi opposta, rispetto a quella che consideriamo normale in un uomo del nostro tempo.
Quanto al cervello, la sua cultura, la straordinaria erudizione che metterà a frutto nel Convivio, nella Monarchia e nella Commedia, Dante se la costruisce soprattutto intorno ai trent’anni, cioè non nell’adolescenza ma nella gioventù, e poi la rassoda nella piena maturità, durante l’esilio, meditando i libri che poteva trovare in città come Bologna e Verona, o nelle corti dei prìncipi più illuminati. È lui stesso a dircelo in una pagina celebre del Convivio in cui data a dopo la morte di Beatrice, cioè a dopo i suoi 25 anni, l’immersione nell’alta cultura scolastica: «cominciai ad andare […] nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti».
Quanto al cuore, la sua educazione sentimentale inizia e finisce con Beatrice: alla lettera. La vede per la prima volta a 9 anni, la rivede a 18, se ne innamora ma con lei non ha certo quella che oggi chiameremmo una relazione: lui sposerà un’altra donna (della quale non farà parola nelle sue opere), lei sposerà un altro uomo, e morirà a 24 anni. Eppure. Eppure nei trent’anni successivi questa ragazza appena sfiorata sarà insieme la sua ossessione e la sua primaria fonte d’ispirazione artistica.
Schopenhauer ha scritto da qualche parte che «ci si ricorda della propria vita appena un po’ di più di un romanzo che si sia letto nel passato». Di fatto, che cosa ricorderemo, che cosa ricordiamo della nostra gioventù, alla fine della vita? Poco, e quel poco ha confini sempre più incerti. Dante invece ricordava tutto. Non solo gli odî ma anche gli amori, cioè l’amore:
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’i modi,
che di ciò fare avei la potestate.
Siamo verso la fine del Paradiso, Beatrice ha ripreso il suo scanno nella rosa dei beati, Dante le rivolge un ultimo ringraziamento. Sono versi scritti attorno al 1320, dalla morte di lei sono passati trent’anni: rivoluzioni politiche, guerre, poesia, miseria, l’Italia percorsa in lungo e in largo e, soprattutto, quel trauma fisico e psicologico che è (e allora doveva ancora di più essere) il diventare vecchi – non c’è cosa che sia rimasta ferma, nella vita di Dante, in tutto questo tempo, salvo il ricordo grato e amorevole, la devozione per Bice Portinari.
Questo – la presenza e il ricordo di Beatrice – è uno dei modi in cui la devozione al genere femminile si manifesta nell’opera di Dante. Ma non è il solo, ce n’è uno più sottile e forse interessante. Il critico letterario Paolo Milano ha osservato una volta che «la tenerezza di Dante, tanto più intensa quando è segreta, commuove più d’ogni altra qualità del suo genio», e come campione di tenerezza ha citato il meraviglioso passo del Purgatorio in cui Matelda accoglie l’invito di Beatrice, e accompagna Dante all’Eunoè:
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia della voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa…
Leggendo certe parti della Commedia io ho sempre avuto un’impressione simile, ma me la sono spiegata in maniera leggermente diversa, cioè come prova di un’eccezionale sensibilità alla grazia e alla gentilezza, sensibilità che si manifesta sia attraverso l’impiego di un certo vocabolario (la pletora di vezzeggiativi e dolci epiteti non solo in certe liriche giovanili ma anche nella Commedia, per esempio nella miniatura che apre Inf. 24: il villanello, le pecorelle, la «sorella bianca» per dire la neve, eccetera), sia, soprattutto, attraverso l’evocazione di certe immagini: immagini – vengo al punto – quasi sempre femminili, che si trovano non solo là dove uno se le aspetta, nelle poesie d’amore, ma anche incastonate nelle similitudini del poema, in alcuni dei versi danteschi più belli e, credo, relativamente meno noti: la «perla in bianca fronte» di Par. 3; la rapida successione tra rossore e pallore di Par. 18 («E qual è ’l trasmutar in picciol varco / di tempo in bianca donna, quando il volto / suo si discarchi di vergogna il carco»); e soprattutto l’incantevole paragone di Par. 10 tra le anime del paradiso e le danzatrici che, interrotta la danza, aspettano che l’orchestra riprenda a suonare («donne mi parver, non da ballo sciolte, / ma che s’arrestin tacite, ascoltando / fin che le nove note hanno ricolte»).
Tutti brani del Paradiso, com’è giusto, dato che è da lassù che nell’anno 1300, mentre Dante brancolava nella selva oscura, si è mosso il drappello di donne, tutte donne – la Vergine Maria, santa Lucia, Beatrice – che gli ha salvato l’anima.
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