Simulazione della prima prova di Italiano dell’Esame di Stato. Alcune riflessioni e suggerimenti

Simulazione della prima prova di Italiano dell’Esame di Stato. Alcune riflessioni e suggerimenti

Claudio Giunta commenta le prove di simulazione della prima prova di Italiano dell’Esame di Stato in occasione dell’Esame Day di Deascuola, che si è tenuto l’8 maggio 2024.
Trovate qui i testi per la simulazione della prova di Italiano da condividere con le vostre studentesse e con i vostri studenti. Qui invece trovate la griglie di valutazione fornita dal professor Giunta. 

Proposta A1 – Giovanni Pascoli, Italy

Anziché fare confronti con altri testi “dell’esilio” scritti in epoche troppo diverse (Dante, per esempio, o Foscolo), conviene forse centrare il discorso sul contesto storico entro il quale va letta questa poesia. La storia d’Italia è, per un lungo tratto, una storia di emigrazione. C’è stata una migrazione interna, che soprattutto nei decenni centrali del Novecento ha portato moltissimi cittadini originari delle regioni meridionali o di quelle nord-orientali a trasferirsi nelle grandi città del nord-ovest (Milano, Torino, Genova: il cosiddetto triangolo industriale) oppure a Roma, per impiegarsi nell’amministrazione dello Stato. E c’è stata una migrazione verso l’estero: soprattutto verso le Americhe, a cavallo tra Otto e Novecento; e verso il nord-Europa, nel secondo dopoguerra. In particolare, nei primi quindici anni del Novecento lasciarono l’Italia, in media, 600.000 persone l’anno (su una popolazione che secondo il censimento del 1901 era di circa 33 milioni). Giovanni Pascoli conosceva bene questa realtà. La Garfagnana, quello spicchio di Toscana compreso tra le Alpi Apuane e gli Appennini in cui egli trascorse parte della sua vita, era una terra povera, abitata da pastori, e dopo l’Unità d’Italia molti dei suoi abitanti partirono per le Americhe. 

Nell’argomentazione, quindi, lo studente potrebbe riflettere sul tema dell’emigrazione nella storia d’Italia, facendo anche riferimento alla ben diversa situazione attuale (l’Italia ora riceve immigrati dai paesi in via di sviluppo, ma perde anche giovani laureati e addottorati, che sono attratti da possibilità di carriera all’estero); e – citando opportunamente alcuni versi della poesia – potrebbe riflettere sulla fisionomia dell’Italia di primo Novecento, un Paese ancora abitato per lo più da contadini e pastori molto poveri, spesso analfabeti, legati a una religiosità elementare che ereditavano dagli antenati e trasmettevano ai loro discendenti. Al paragone, la differenza salta agli occhi: oggi gli italiani vivono per la gran parte in città, la popolazione dedita all’agricoltura e alla pastorizia è meno del 5% del totale, gli analfabeti sono pochissimi e, specie negli ultimi decenni, si è assistito a un imponente fenomeno di scristianizzazione che ha avuto riflessi notevoli sulla mentalità e dunque sull’identità italiana. 

PROPOSTA A2 – Pier Paolo Pasolini, Il genocidio

Per buona parte, l’opera di Pasolini ruota attorno a un unico problema: il trauma della velocissima industrializzazione che l’Italia conobbe tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Novecento, con le sue conseguenze: nascita di una civiltà dei consumi, fine del mondo contadino e dell’antica cultura popolare, abbandono delle campagne. Nell’Italia del dopoguerra e del cosiddetto miracolo economico, Pasolini fu uno dei pochi intellettuali comunisti a essere radicalmente non progressista. In molti suoi saggi, infatti, così come nella simulazione che qui viene proposta, la modernizzazione industriale è descritta come un vero e proprio cataclisma culturale. A causa di quello che Pasolini definisce uno «sviluppo senza progresso», l’Italia gli appare come una nazione che sta uscendo dalla povertà ma che sta perdendo sé stessa, la propria memoria, la propria identità millenaria. Se il Neorealismo ha rappresentato soprattutto la miseria materiale del nostro Paese, distrutto dal fascismo e dalla guerra, con Pasolini è la miseria morale generata dalla nuova ricchezza e dalla corsa ai consumi a occupare quasi integralmente la scena. Lo studente potrebbe, intanto, chiarire in termini storici e storico-economici i caratteri del boom economico (il suo nucleo negli anni 1958-1963, le sue conseguenze nell’ambito della produzione, dei consumi e dei costumi degli italiani); potrebbe paragonare la posizione di Pasolini a quella di altri scrittori e poeti coevi molto critici nei confronti di questa repentina trasformazione dell’Italia (per esempio Luciano Bianciardi, che di questi anni fa la cronaca nel romanzo La vita agra; o il poeta Elio Pagliarani, nella Ragazza Carla; o lo stesso Eugenio Montale, in Satura); e potrebbe anche fare riferimento ad alcuni dei più bei film italiani dell’epoca, che documentano spesso in chiave comico-grottesca questa grande trasformazione (Una vita difficile di Dino Risi o Il boom di Vittorio De Sica, per esempio). Su questo sfondo storico, lo studente potrebbe poi riflettere autonomamente sul valore delle tesi di Pasolini: è, la sua, un’analisi attendibile della storia italiana del pieno Novecento? Davvero in quest’epoca c’è stata la «sostituzione di valori» che egli descrive nel suo articolo? E in generale: per una società (e per la vita dei suoi cittadini, per la nostra vita) è meglio uno sviluppo tumultuoso e violento oppure l’immobilità? 

PROPOSTA B1 – Gian Luigi Beccaria, In contrattempo: elogio della lentezza

La riflessione di Beccaria verte sulla lentezza nella vita intellettuale e culturale: leggere con calma, capire in profondità, prendersi il tempo necessario per approfondire, anziché adattarsi alla rapidità della comunicazione corrente. Ma la nostra vita attuale è velocissima anche in altri sensi. Da un lato, sono velocissimi gli spostamenti fisici delle persone; dall’altro, è velocissima, quasi immediata la trasmissione delle informazioni (parole, suoni, immagini): si dice infatti in tempo reale, cioè mentre le cose avvengono. A partire dalle parole di Beccaria, lo studente potrebbe riflettere a sua volta su questi due aspetti dell’accelerazione moderna, che gli sono molto più familiari. Potrebbe domandarsi per esempio: quanto si impiegava, un secolo fa, per attraversare l’Italia da nord a sud? E quanto per attraversare l’oceano? Che cosa ha cambiato, nella vita degli esseri umani, l’invenzione dell’automobile, e poi quella dell’aereo? O l’introduzione dei treni superveloci? E quali riflessi queste invenzioni hanno avuto sul carattere e sulla mentalità delle persone? E quanto alle informazioni: nel 1821, Manzoni apprese della morte di Napoleone a Sant’Elena più di due mesi dopo che essa si era verificata; oggi lo sapremmo praticamente subito, in presa diretta. Quali conseguenze ha, questa istantaneità nell’informazione, sul modo in cui noi viviamo, pensiamo, ci rapportiamo agli altri (anche agli altri che vivono in luoghi molto distanti da noi)? 

PROPOSTA B2- Giacomo Matteotti, resoconto stenografico del discorso alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924 

Giacomo Matteotti guidò la lista del Partito socialista unitario nelle elezioni del 1924. All’indomani del voto, parlando alla Camera dei deputati (è il discorso riportato nella simulazione), ne contestò i risultati denunciando le violenze commesse dai fascisti per riuscire a vincere, e chiedendo la sospensione di molti dei loro eletti in Parlamento. Il 10 giugno venne rapito e ucciso da alcuni squadristi fascisti e il suo cadavere venne ritrovato solo due mesi più tardi. L’omicidio accelerò l’instaurazione della dittatura fascista, vale a dire che Mussolini si convinse che era opportuno e giusto – per usare le parole di Matteotti – «mantenere il potere con la forza». I vent’anni successivi sarebbero stati i più tragici della storia italiana. Di fronte a una traccia del genere occorre innanzitutto avere chiari gli eventi principali della nostra storia tra le due guerre mondiali (l’Enciclopedia Treccani online ha un’ottima voce ‘Fascismo’ che può servire per un primo orientamento). Poi conviene riflettere su alcuni concetti espressi da Matteotti, concetti che ancor oggi stanno a fondamento delle democrazie occidentali: il pluralismo, cioè la necessaria presenza sulla scena politica di più tendenze o partiti politici, e la loro tutela da parte delle autorità; la possibilità di esprimere la propria opinione liberamente, senza temere reazioni violente da parte di chi detiene il potere (articolo 21 della Costituzione repubblicana: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»); la possibilità di votare liberamente e di candidarsi alle elezioni (articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»). 

Senza moralismi, ci si potrebbe domandare infine se gli ideali per i quali Matteotti ha combattuto siano ancora vivi oggi, non solo nella nostra Costituzione (lì lo sono senz’altro) ma anche nella coscienza dei cittadini: siamo pronti ad accettare che i nostri avversari sostengano idee diverse od opposte rispetto alle nostre? Saremmo pronti a correre dei rischi per difenderle? Per aiutare lo studente nella riflessione può essere utile una pagina del grande saggio Sulla libertà (On Liberty), pubblicato nel 1859 dal britannico John Stuart Mill, uno dei massimi filosofi morali dell’età moderna. Quella che segue è la pagina in cui Mill riepiloga le ragioni per cui è giusto e necessario che lo Stato difenda la libertà d’opinione e d’espressione (Sulla libertà, Milano, Bompiani 2000, II iv 1): 

Abbiamo fin qui riconosciuto, per il benessere mentale dell’umanità […], la necessità della libertà d’opinione e della libertà di espressione delle opinioni sulla base di quattro distinte ragioni che ora ricapitoleremo brevemente: 
(1) Se un’opinione qualsiasi è costretta al silenzio, tale opinione, per quanto ci è dato sapere con certezza, potrebbe essere vera. Negare ciò equivale a presumere la nostra infallibilità.
(2) Sebbene l’opinione messa a tacere sia un errore, essa potrebbe contenere, e molto spesso contiene, una porzione di verità; e quindi, poiché raramente o mai l’opinione generale o prevalente su qualsiasi argomento rappresenta l’intera verità, è solamente dalla collisione di opinioni contrarie che la parte restante di verità ha qualche possibilità di emergere.
(3) Anche se l’opinione accettata è non solo vera, ma è l’intera verità, qualora tuttavia non possa essere vigorosamente e apertamente contestata […], essa sarà sostenuta dalla maggior parte di coloro che l’accettano alla stregua di un pregiudizio, con scarsa comprensione o percezione dei suoi fondamenti razionali.
(4) Per di più, il significato stesso della dottrina rischia di perdersi o di indebolirsi e di essere privato del suo effetto vitale sul carattere e sulla condotta: allora il dogma diventerebbe una pura formula, inefficace per la realizzazione del bene e di ostacolo allo sviluppo di ogni autentica e profonda convinzione derivante dalla ragione o dall’esperienza personale. 

Ecco spiegato, in poche righe, perché è necessario garantire la libertà di parola e d’espressione ai cittadini. A voler essere ancora più sintetici, potremmo dire che le quattro ragioni elencate da Mill possono ridursi ad una sola: l’opinione dominante (in materia di politica, scienza, morale, religione, eccetera) potrebbe essere sbagliata, o potrebbe non essere l’opinione migliore, ma per capirlo – per cambiare o perfezionare le nostre opinioni – abbiamo bisogno di ascoltare il parere degli altri. Ma come se questo parere non può essere espresso liberamente (cioè senza il timore di rappresaglie o sanzioni), chi mai avrà il coraggio di prendere la parola? Ecco, dunque, che la libertà di parola e d’espressione non è soltanto un diritto che va nell’interesse dei singoli individui ma una conquista, un beneficio per la società nel suo complesso. «L’uomo – scrive Mill nel suo trattato – è capace di correggere i propri errori con la discussione e l’esperienza. La sola esperienza non basta. Ci dev’essere la discussione per indicare come l’esperienza debba essere interpretata». Uno Stato liberale sollecita e protegge, appunto, questa discussione. 

PROPOSTA B3 – Dacia Maraini, Gli abiti decorosi da avere a scuola 

Come vestirsi? Sarebbe facile accusare Dacia Maraini di moralismo, il peccato che consiste nel voler dire agli altri come devono vivere la loro vita. Ma sarebbe un’accusa ingiusta. In realtà, Maraini non nega alle persone, e soprattutto qui agli studenti, il diritto di vestirsi come meglio credono. Ciò che la scrittrice contesta è proprio il fatto che i giovani non si vestano come vogliono loro ma aderendo alle prescrizioni dirette o indirette della moda (cioè dell’industria e dei media). Da un lato, ciò li espone al conformismo: bisogna indossare quel determinato abito o quel determinato ornamento perché così fanno tutti (e in questo caso il conformismo nei vestiti diventa metonimia di un conformismo più profondo nelle abitudini, nelle idee). Dall’altro lato, questa falsa idea di libertà li porta a ignorare il fatto che esistono contesti, ambiti, registri che è opportuno rispettare, sicché ciò che è possibile indossare nel tempo libero non può essere indossato in un luogo d’incontro e socialità come la scuola. Esistono delle convenzioni sociali, e vanno osservate. Oppure… no? Una riflessione potrebbe partire da qui: cercando di distinguere, nel discorso di Dacia Maraini, ciò che rispecchia idee ormai non più attuali da ciò che invece è applicabile alla realtà della scuola odierna.

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