Qualche idea per una didattica dello storytelling

Qualche idea per una didattica dello storytelling

Avete mai provato a contare quante storie incontrate in un giorno qualunque della vostra vita? Sono letteralmente centinaia: quelle che vi raccontano i vostri familiari al mattino mentre fate colazione, quelle che scorrete sul telefono. Quelle che sentite distrattamente sull’autobus, quelle dette ridendo dalle colleghe e dai colleghi, quelle molto fantasiose con cui uno studente vi spiega perché purtroppo non ha potuto studiare. Ancora: il libro che leggete in pausa pranzo, il videogame a cui gioca vostra figlia mentre lavorate dal salotto, il film che vedete la sera… 

Il fatto è che le storie sono elementi centrali della nostra esistenza, a prescindere dal modo con cui vengono raccontate: a voce, in forma scritta, con le immagini e tanto altro. 
Sono lo strumento più potente che l’umanità abbia mai inventato per trasmettere (o tramandare) le proprie esperienze, e sono uno strumento potente perché permette un coinvolgimento emotivo ed empatico. Per questo Stephen King dice che le storie sono simili alla telepatia, e Umberto Eco che chi legge vive centinaia di vite. Mentre siamo immersi in una storia, entriamo nella testa di qualcun altro.

È per tutte queste ragioni che credo sia fondamentale per ciascuno di noi confrontarsi con le storie, sia nella fase di “ricezione” (leggerle e ascoltarle) che in fase di “produzione” (scriverle o raccontarle a voce). 

Nel mio lavoro quotidiano di narratore, mi capita spesso di incontrare ragazze e ragazzi in fase di formazione, e di parlare con loro di storie. Noto sempre due aspetti apparentemente in contrasto fra loro:
– da un lato vi è una forte competenza superficiale. È trasversale e prescinde dall’età, dal contesto culturale e socio-economico. In cosa consiste? Forse perché siamo immersi nelle storie tutto il giorno, impariamo quasi naturalmente alcune cose su di loro… E ad esempio, inventando una storia in contesto laboratoriale, tutti gli studenti sanno istintivamente quando è il momento di far succedere un colpo di scena, o cosa significa aprire e chiudere archi narrativi (anche se spesso non li chiamano così);
– dall’altro lato vi è pochissima consapevolezza profonda del perché e come creare una storia, di quali sono i suoi elementi di interesse e come vanno gestiti, di come accorgersi se una storia è falsa (un aspetto sempre più importante nel mondo di oggi), eccetera. Questa poca consapevolezza peggiora nei contesti culturali e socio-economici svantaggiati.

Ecco perché insegnare lo storytelling, e cioè il parlar di storie, a scuola, mi sembra così importante. Si tratta di dare a ragazze e ragazzi provenienti da qualsiasi contesto gli strumenti per gestire uno degli aspetti più importanti della loro vita, e che avrà un impatto enorme sul loro ruolo futuro.

Va bene, ma come farlo nella pratica?

Comincerei da un grande classico dello storytelling a scuola: la richiesta agli studenti di scrivere un racconto breve. Se ci avete provato, è molto probabile che avrete notato occhi dilatati, bocche spalancate, sudore profuso, ansia a volontà. D’altronde queste ragazze e ragazzi hanno pure ragione: è come chieder loro di mettersi lì e costruire un grattacielo. Un compito che appare difficile e, in fin dei conti, insormontabile.
Quello che faccio io è scomporre il compito in pezzi più piccoli, e affrontarli separatamente con “allenamenti” mirati, per poi arrivare alla scrittura del racconto integrale solo al termine del percorso. Quando l’allenamento è sufficiente, i muscoli sono abbastanza forti, e gli studenti sono in grado di arrivare in cima con le loro forze.
La scrittura di un testo narrativo si compone sempre di tre fasi (che hanno nomi diversi a seconda dei metodi che potreste utilizzare): 
– l’ideazione, cioè lo studio di cosa vogliamo raccontare,
– la scrittura vera e propria, in cui l’ideazione si concretizza in un testo,
– la revisione, in cui il testo viene corretto e messo a punto.

Ognuna di queste fasi si scompone in sotto-fasi che possono essere viste ed esercitate separatamente. Un trucco che io trovo sempre molto utile è dire agli studenti non solo che cosa fare, ma anche e soprattutto cosa è meglio non fare.
Ecco due esempi. Se in fase di ideazione volete lavorare proprio sull’idea portante di un racconto, cioè “di che cosa parla la storia?”, potreste proporre:

Proposta di attività 1

– Un laboratorio di gruppo in cui ognuno scrive un luogo, un’azione, oppure un personaggio su un foglio, poi questi fogli vengono mescolati e pescati a caso per vedere se nella loro messa in relazione si trova l’“ispirazione”.

– Al termine del laboratorio precedente di sicuro vi troverete con storie dove principesse extraterrestri vampire combattono con funghi mutanti zombi che però hanno il potere del fuoco. A quel punto si organizza un laboratorio di “sfoltimento” per togliere tutto ciò che non è necessario, mostrando così che una buona storia si concentra su uno o due elementi principali e basta, e bisogna individuare i migliori. (Avviso che per gli studenti questo laboratorio si rivela sempre molto più difficile del primo, ma è anche quello che produce risultati migliori!)

Proposta di attività

Se in fase di scrittura state lavorando sull’incipit, cioè come vincere la sindrome del foglio bianco e iniziare a scrivere un racconto:

– potete immaginare un laboratorio in cui andate a cercare gli incipit delle storie preferite delle vostre studentesse e dei vostri studenti (che siano fumetti, romanzi, film o altro ancora) e magari ne proponete altri voi, per capire quali sono le strategie che mettono in campo. Di solito aiuta e rassicura sapere che gli incipit non sono infiniti, ma rientrano in una decina di categorie che si ripetono sempre… Si può poi suggerire una modalità: “comincio dalla presentazione del personaggio” (come fa Melville in Moby Dick) o “comincio enunciando il tema di fondo” (come fanno Austen in Orgoglio e pregiudizio e Tolstoj in Anna Karenina). Questo è già un bell’aiuto. 

– A me piace poi proporre un secondo laboratorio in cui racconto quali incipit è meglio evitare perché sono dei cliché. E quindi “non cominciate mai un racconto con la descrizione del tempo atmosferico”, che è una delle dieci regole di Elmore Leonard, oppure “non cominciate mai un racconto con un personaggio che si sveglia, poi fa colazione, poi va a scuola o al lavoro”. 

Questi due laboratori, una pars costruens e una pars destruens, da fare sempre associati, nella mia esperienza producono buoni risultati, ed evitano poi a voi di trovarvi a correggere decine di racconti tutti uguali, che si concludono immancabilmente con la protagonista che capisce che “è stato solo un sogno”.
Come no… più un incubo, direi. Per fortuna la scuola esiste proprio per farci aprire gli occhi! 

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