Cuori intelligenti: Leggi l'introduzione all'antologia della "Commedia"  

Cuori intelligenti: Leggi l'introduzione all'antologia della "Commedia"  

In occasione del lancio di Cuori Intelligenti, la nuova letteratura Garzanti Scuola, DLive vi propone le introduzioni ai volumi del corso dove l’autore delinea i contenuti e le scelte.
Nelle settimane scorse vi abbiamo proposto la lettura dell’introduzione al Volume 1 – Dalle origini al Rinascimento , l’introduzione al Volume 2 – Dal Barocco al Romanticismo, l’introduzione al volume su Giacomo Leopardi e l’introduzione al Volume 3– Dal secondo Ottocento al primo Novecento.

Oggi vi proponiamo la lettura dell’introduzione di Claudio Giunta all’antologia della “Commedia”.


Perché continuiamo a leggere la «Commedia»?

Prima di dire quali sono le ragioni per cui ha ancora senso leggere, oggi, la Commedia, diamo un’occhiata alle ragioni che sembrerebbero suggerire la conclusione opposta, e cioè che la Commedia ha fatto il suo tempo ed è ormai una lettura per eruditi alla stregua, poniamo, dell’illeggibile Roman de la Rose, o di tanti altri vecchi libri che fingiamo di amare perché ci hanno detto che è indispensabile amarli.

1. Prima ragione che può scoraggiare la lettura. La Commedia è in versi, è un racconto in versi: e noi oggi tendiamo a pensare che i versi vadano bene per la poesia lirica o per le canzoni ma certamente non per i racconti lunghi. Per i racconti lunghi c’è la prosa. Esistono anche poeti contemporanei che hanno provato a raccontare una storia in versi, centinaia o migliaia di versi, ma sono eccezioni, e quasi mai eccezioni felici. Ci sono poche idee sulla letteratura più veritiere di quella di Edgar Allan Poe secondo cui le poesie dovrebbero essere abbastanza brevi da stare su una sola pagina, così da poter essere lette tutte in una volta, senza interruzioni: a distanza di un secolo e mezzo questo è ancora il nostro punto di vista, e tutto lascia credere che le cose non cambieranno, che nessun brillante futuro attende il genere ‘poema’. Insomma, la Commedia è scritta in un modo artificiale, e questo artificio – anzi, questa somma di artifici: non soltanto il verso ma anche la rima, la disposizione ‘innaturale’ delle parole, e insomma tutto ciò che rende poesia la poesia – è ormai irrimediabilmente lontano dalle nostre abitudini e dai nostri gusti.

2. Seconda ragione. La Commedia è stata scritta sette secoli fa. Com’è cambiata la vita da allora! E soprattutto: com’è cambiata la vita in quest’ultimo secolo! Non è forse vero che tra il mondo di Dante e quello dei nostri bisavoli o trisavoli, all’inizio del Novecento, c’è meno differenza di quanta ce ne sia tra questo mondo di ‘appena ieri’ e il nostro mondo, oggi? Non hanno forse, la scienza e la tecnica, trasformato così radicalmente il paesaggio da rendere quasi imparagonabili questi orizzonti d’esperienza?
Molte delle cose che Dante descrive non sono più le cose che noi abbiamo davanti agli occhi. L’idea dell’esistenza che Dante aveva non è più la nostra. Egli ha vissuto in un mondo i cui confini coincidevano praticamente con quelli dell’Europa centro-meridionale, un mondo nel quale le forze politiche più importanti erano l’Impero, con sede in Germania, e il Papato, con sede a Roma. Al centro del cosmo stava, per lui, il pianeta Terra, con gli altri pianeti e col sole a girarle intorno. Non c’è cosa che sia rimasta intatta, da allora. E non si tratta soltanto dei massimi sistemi, ma anche della quotidiana esperienza della vita. Quando leggiamo i primi versi della Commedia, «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura», dobbiamo fare un grosso sforzo per immaginare la paura che poteva avere un viandante che, nell’anno 1300, si fosse perduto in una di quelle foreste che cominciavano appena fuori dalle mura delle città e che erano davvero aspre, selvagge, e popolate da animali feroci. Molti dei lettori odierni della Commedia hanno a malapena visto un bosco, e lo hanno visto di giorno, camminando lungo un sentiero segnato. Smarrirsi ha, per loro, un significato molto diverso, molto meno sinistro, di quello che poteva avere per un lettore del tempo di Dante, quando smarrirsi poteva voler dire morire.
Si potrebbe dire che, durante i sette secoli che ci separano da Dante, sono rimaste intatte alcune fondamentali istanze umane: l’amore, l’odio, il dolore, la paura della morte… Questo è senz’altro vero; ma consideriamo per esempio una delle più importanti fra queste istanze: la fede, la religione. Possiamo forse dire che, sotto questo aspetto, il nostro universo corrisponde ancora, almeno nelle sue linee essenziali, a quello di Dante? Dante credeva alla verità storica della Bibbia. Noi, o almeno la gran parte di noi, non ci crediamo. La fede di Dante non ha incertezze né incrinature: egli non è soltanto sicuro dell’esistenza di Dio ma è convinto di avere, con la sfera del divino, un rapporto privilegiato: è il tema che emerge a ogni passo della Vita nova e della Commedia. In linea di massima, le donne e gli uomini di oggi vivono la fede con molto più distacco: anche se sono religiosi, il peso che la religione ha nelle loro vite e nelle loro idee, opinioni, sentimenti, è molto inferiore al peso che la religione poteva avere per un cristiano del tempo di Dante. Non è dunque eccessivo dire che per questi lettori, per noi lettori di oggi, la Commedia ha cessato di essere vera: nel senso che la visione del mondo che si esprime nella Commedia – la dottrina, i dogmi, l’idea della Provvidenza che pervade ogni azione di Dante-personaggio e ogni affermazione di Dante-poeta – ci è diventata estranea. Si pone insomma – e si è posto in realtà a partire dal Rinascimento, e poi più decisamente da due secoli a questa parte – il problema della lettura di un’opera fortemente ideologica come la Commedia all’interno di una società come la nostra, che ha in buona misura superato quell’ideologia, che si è secolarizzata.
Ebbene, come possiamo superare o annullare, leggendo la Commedia, questo drastico mutamento di mentalità? Possiamo davvero interessarci a un’opera che presuppone, illustra e difende valori così diversi da quelli che ispirano oggi le nostre vite?

3. Terza ragione di lontananza. La Commedia non soltanto parla di cose che sono molto lontane dalla nostra esperienza, così come molti capolavori del passato (la guerra sotto le mura della città di Troia, il viaggio di un eroe che è destinato a fondare Roma, le avventure di un pazzo che si crede un cavaliere errante), ma ne parla anche in maniera terribilmente complicata. La Commedia è forse l’unica grande opera letteraria occidentale che non può essere letta senza un commento o senza avere accanto una buona enciclopedia. Prendiamo la mitologia. Anche i poemi latini e greci erano pieni di strani e spesso oscuri riferimenti al mito, ma bisogna supporre che quei miti fossero moneta corrente per molti lettori del tempo: un codice condiviso, se non un credo condiviso. Nel momento in cui Dante scrive versi come questi (Par. I 13-18):

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro

fammi del tuo valor sì fatto vaso,

come dimandi a dar l’amato alloro.

Infino a qui l’un giogo di Parnaso

assai mi fu; ma or con amendue

m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

è passato quasi un millennio da quando il pantheon greco-romano è stato sostituito dalla Trinità cristiana: soltanto chi conosceva alla perfezione la mitologia classica, i poemi classici, aveva qualche speranza di orientarsi, da solo, tra questi nomi. Per questa ragione, e anche questo è un caso unico nella storia della letteratura occidentale, si pensò subito di non lasciare da soli i lettori, e pochi anni dopo la morte di Dante si cominciarono a scrivere eruditissimi commenti, simili a quelli che si erano scritti per opere molto lontane nello spazio e nel tempo, e appartenenti a generi molto diversi come i libri della Bibbia o i trattati di Aristotele.
Non basta: perché l’enciclopedia che serve per leggere Omero o le Metamorfosi di Ovidio rischia di non essere sufficiente per la Commedia. Prendiamo per esempio questi versi (Purg. VI 13-18):

Quiv’era l’Aretin che da le braccia


fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,


e l’altro ch’annegò correndo in caccia.

Quivi pregava con le mani sporte


Federigo Novello, e quel da Pisa

che fé parer lo buon Marzucco forte.

Questa è storia contemporanea, anzi è cronaca, cronaca minuta: si accenna a personaggi innominati («l’Aretin», «quel da Pisa») e si allude ad eventi (una vendetta di Ghino di Tacco, un annegamento) intorno ai quali molto difficilmente un lettore del tempo – e un lettore non toscano in ispecie – poteva essere informato. Ora, anche scrittori latini come Lucano o come Stazio avevano raccontato la storia del loro tempo. Ma la loro era la grande storia degli imperi, non la cronaca di una minuscola cittadina. In più, nel momento in cui raccontano le loro storie, Lucano e Stazio mettono il lettore nella condizione di capire bene quello che stanno dicendo, spiegano gli antefatti, le cause degli eventi, ci fanno conoscere da vicino i protagonisti: «L’animo mi porta a esporre le cause di avvenimenti tanto gravi: / viene così a spalancarsi un’opera smisurata per chiarire cosa abbia spinto alle armi / il popolo romano accecato, cosa abbia scrollato la pace via dal mondo» (Farsaglia I 67-69).

E segue il racconto dei fatti che avevano portato alla guerra civile. Dante, al contrario, non spiega. Cita, allude, prende personaggi ed eventi del passato e li inserisce nel suo racconto ma – dato che ciò che gli sta a cuore non sono tanto le loro vicende personali quanto il loro valore esemplare – dà spesso al lettore informazioni scarse e lacunose circa la loro identità terrena. Chi, senza l’aiuto dei commenti, riuscirebbe a immaginare tutta la storia che sta dietro alla dozzina di versi pronunciati dall’anonimo fiorentino che confessa il suo suicidio alla fine del canto XIII dell’Inferno

Ma non c’è soltanto questo. La Commedia è anche piena di passi in cui Dante parla, semplicemente, della sua vita privata. E ne parla come se tutti fossero al corrente di ciò che sta dicendo, o meglio come se non gli importasse del fatto che nessuno può davvero afferrare ciò che sta dicendo. Anche in questo caso è utile un confronto. Nell’antica Roma esisteva un genere letterario nel quale era ammesso un simile codice ristretto: la satira. Quando leggiamo, nella satira XI di Giovenale (vv. 21-23): «È però necessario distinguere tra chi si prepara simili pranzi; se è Rutilio, è un lusso, ma se si tratta di Ventidio, la faccenda prende tutt’altro nome»; oppure (nella stessa, vv. 33-34): «Chiarisci bene a te stesso che cosa tu sia, se un oratore veemente o uno sbruffone come Curzio o Matone», noi non potremmo mai capire di che cosa si sta parlando se non avessimo delle note esaurienti, note che però talvolta non riescono comunque a spiegare il passo in questione: «Potrebbe essere il Ventìdio Basso della satira VII, che dal nulla divenne console e accumulò grandi ricchezze […]. Di Curzio nulla sappiamo». (Decimo Giunio Giovenale, Satire, a cura di Ettore Barelli, Milano, Rizzoli 2002, p. 237.) Il passo resta oscuro: ma è pensabile che per i lettori antichi queste allusioni fossero trasparenti, che si trattasse di aneddoti che circolavano tra la gente, come ne circolano oggi un po’ in tutti gli ambienti. È solo il passaggio del tempo che rende oscuro quello che una volta doveva essere chiaro a molti. Ma il codice ristretto di Dante – le allusioni a una «pargoletta» che lo ha messo sulla cattiva strada (Pg XXI 59), ai «battezzatori» di San Giovanni (If XIX 16-24), ai suoi trascorsi con questo o quel personaggio del poema (Forese, Carlo Martello, Belacqua) – non è che memoria personale, perciò non condivisa, ed è probabile che esso non sia stato mai trasparente per nessuno salvo che per Dante.
Insomma, la terza ragione che allontana la Commedia da noi è questa: la Commedia è molto difficile da capire perché Dante parla di moltissime cose disparate senza però darsi la pena di offrire al lettore informazioni che gli facciano capire di chi o di che cosa si sta parlando.

4. E adesso, dopo aver detto perché un lettore di oggi potrebbe non avere voglia di leggere la Commedia, proviamo a spiegare perché questa sarebbe la scelta sbagliata, cioè perché vale invece la pena di provarci.
La questione della forma: i versi. Certo, i versi sono una forma artificiale, una costrizione. Ma non è detto che una costrizione debba rappresentare un ostacolo per l’immaginazione e per l’arte. Oggi abbiamo questa impressione, perché viviamo in un’epoca in cui gli artisti godono di una quasi totale libertà formale. Quale tipo di versi può adoperare un poeta, oggi? Tutti quelli che vuole, delle misure che vuole. Di che cosa può parlare una poesia? Di qualsiasi argomento. Quanto può essere lungo un racconto in prosa? Da una riga a tremila pagine. In passato i confini dei generi erano molto più rigidi: c’erano delle regole precise su come comporre una poesia, un dramma, un poema, e anche su ciò che una poesia, un dramma, un poema potevano dire. Ebbene, dopo un po’ che si studiano le opere del passato ci si accorge di come proprio il buon uso delle costrizioni – degli schemi fissi, delle regole – sia uno dei modi attraverso i quali l’arte può dare piacere.
Sarebbe facile citare i tanti versi, o le tante terzine meravigliose della Commedia. Ma facciamo un esempio un po’ meno scontato. Tra le cose che Dante deve fare c’è trovare un inizio originale per ognuno dei cento canti, non ripetere sempre le stesse parole, lo stesso schema, la stessa situazione narrativa. Ci si pensa di rado, ma questa in pratica è una cosa nuova nella letteratura europea perché i poemi, i romanzi in versi anteriori a Dante non sono divisi in canti: cento nuovi inizi sono un problema che nessuno aveva mai dovuto affrontare. Ma Dante trasforma il problema in un’occasione, e trova delle soluzioni geniali. Comincia, senza nessuna spiegazione, citando le parole scritte su una porta all’ingresso dell’inferno (Inf. III 1-3):

«Per me si va ne la città dolente,


per me si va ne l’etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente».

Oppure comincia apostrofando, come in un grido, la sua ingrata città natale (Inf. XXVI 1-3):

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

e per lo ’nferno tuo nome si spande!

Oppure comincia citando versacci incomprensibili (Inf. VII 1-3):

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,

cominciò Pluto con la voce chioccia;

e quel savio gentil, che tutto seppe…

(e lo può fare anche perché di versi in –eppe, essendo all’inizio del canto, deve trovarne soltanto due, non tre: non è facile, ma è meno difficile che se queste rime impossibili stessero nel corpo del canto, dato che lo schema della terza rima è ABABCBCDCDED…). Insomma, la costrizione, l’obbligo che Dante si è auto-imposto (iniziare per cento volte il racconto, e farlo in maniera sempre diversa) finisce per rappresentare lo stimolo, l’ispirazione che genera alcuni dei versi più memorabili del poema. Raccontare in prosa non avrebbe prodotto le stesse meraviglie.

5. La Commedia, abbiamo osservato in secondo luogo, è stata scritta molti secoli fa, e tra il mondo di Dante e il nostro le differenze sono più numerose delle analogie. E non solo il mondo che Dante descrive, ma anche e soprattutto il mondo come Dante lo pensa: le sue idee sulla religione, la politica, i rapporti tra i sessi e le classi sociali, ci sono ormai quasi del tutto estranee. Vale davvero la pena di ascoltarle?
È vero, i personaggi raffigurati nella Commedia sembrano avere un rapporto molto labile con noi. Sono re, imperatori, guerrieri, personaggi della Bibbia, santi come Francesco d’Assisi, eroi presi dalla letteratura come Ulisse; e certo la situazione in cui si trovano, tuffati nell’inferno o illuminati dalla luce di Dio, non si può davvero definire ‘tipica’. Rispecchiarsi in loro non è facile come rispecchiarsi nei protagonisti dei grandi romanzi moderni come Madame Bovary o Raskolnikov o Holden Caulfield.
Ma, da un lato, Dante possiede un’immaginazione e una sensibilità così ricche da poter esprimere anche idee ed emozioni che la letteratura del suo tempo non era ancora in grado di esprimere. Ci sono passi, episodi interi della Commedia che parlano a tutti, anche a chi non ha alcun interesse né per la poesia né tantomeno per un’età remota come il Medioevo, per la semplice ragione che Dante ha saputo fissare in modo geniale sentimenti che sono realmente universali. Si può essere indifferenti alla letteratura, o cinici, ma è difficile esserlo abbastanza da restare inerti leggendo il discorso di Ulisse ai suoi compagni di viaggio o gli ultimi versi del Paradiso.
Dall’altro lato, ed è il punto più importante, il fatto che la Commedia appartenga a un passato remoto la mette, in un certo senso, al riparo dalle regole del buon gusto, cioè di quello che oggi consideriamo buon gusto. Dante parla di cose di cui la letteratura moderna non può parlare se non cadendo nella magniloquenza o nel kitsch. Chi potrebbe oggi, seriamente, raccontare di come, grazie all’intercessione di San Bernardo e della Vergine Maria, è arrivato a vedere Dio? E chi potrebbe, in un romanzo, mettersi a parlare seriamente del problema della resurrezione della carne, e affermare di poterlo risolvere? E tuttavia queste due chimere, la visione di Dio e la resurrezione, non solo ispirano a Dante alcuni dei versi più belli della Commedia ma, per quanto remote siano dalla nostra esperienza quotidiana, ci interessano e ci commuovono. Se, per scrupolo di realismo, la letteratura può aver superato queste immaginazioni e può averle messe nel repertorio delle cose di cui non è più possibile parlare, noi non le abbiamo superate affatto: sono ancora al centro della nostra fantasia e dei nostri desideri. Ecco lo splendido passo del Paradiso (XIV 52-66) in cui Salomone – il re d’Israele emblema di saggezza e di giustizia – spiega a Dante che i morti risorgeranno col loro corpo, e non solo come puri spiriti. Per esserne turbati non è necessario crederci, basta pensare a qualcuno che si amava e che si è perso:

«Ma sì come carbon che fiamma rende,

e per vivo candor quella soverchia,

sì che la sua parvenza si difende

così questo fulgór che già ne cerchia,

fia vinto in apparenza da la carne

che tutto dì la terra ricoperchia;

né potrà tanta luce affaticarne:

ché li organi del corpo saran forti

a tutto ciò che potrà dilettarne».

Tanto mi parver sùbiti e accorti

e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,

che ben mostrar disio de’ corpi morti:

forse non pur per lor, ma per le mamme,

per li padri e per li altri che fuor cari

anzi che fosser sempiterne fiamme.


Parafrasi: «Ma così come il carbone avvolto dalla fiamma supera quest’ultima per forza luminosa, tanto da risultare visibile, così la luce che ci circonda sarà superata, per chiarore, dalla carne che in questo momento si trova sottoterra; né una luce così forte potrà abbagliarci, perché gli organi del corpo sapranno sopportare tutto ciò che per noi sarà motivo di gioia». I due cori di luci dissero «Amen» con una prontezza che manifestava chiaramente il loro desiderio di riavere i corpi morti: forse non per loro stessi, ma per le loro madri, per i padri e per tutti quelli che li ebbero cari prima che diventassero delle fiamme eterne. 

Insomma, così come per la questione della forma (versi, non prosa), il vero passo avanti è capire che anche la distanza temporale, ideale e di gusto può, se colta in maniera adeguata, trasformarsi in un’occasione per ottenere dall’arte ciò che l’arte della nostra epoca non è più in grado di darci.

 6. Resta il terzo problema, la terza distanza. È forse possibile trovare un ‘lato buono’ nella incomprensibilità di molti passi della Commedia, nell’allusione a libri che non conosciamo, o a circostanze storiche che ci sfuggono? Se dobbiamo proprio leggere un poema antico, perché allora non scegliere l’Odissea, o l’Eneide o i romanzi arturiani, libri che sono anche e soprattutto delle grandi storie, che si possono leggere rilassandosi, ignorando le note, libri che non chiedono un’attenzione costante per decifrare la realtà che sta dietro alle parole? In effetti è così, la Commedia non è un libro come gli altri, un libro di cui si possa fare una lettura ‘disimpegnata’. Ma in questa difficoltà risiede, ancora una volta, un’occasione.
Noi siamo abituati a separare con un tratto molto netto il piacere estetico dal piacere che viene dal conoscere. A scuola è persino difficile accettare che quest’ultimo sia un piacere: ci appare piuttosto come un ostacolo, una prova che bisogna superare per poi dedicarsi a cose più utili o riposanti (come, per esempio, dire la nostra opinione su quello che abbiamo letto, o su ‘quello che davvero voleva dire Dante’). Naturalmente si può leggere la Commedia anche così, disinteressandosi di ciò che non si capisce e lasciandosi cullare dalla bellezza di certi versi, di certe similitudini, o dalla prodigiosa immaginazione di Dante, dalla sua inventiva nella sfera dell’orrido e in quella del sublime. Allo stesso modo, si può benissimo leggere l’Iliade senza sapere niente degli dei greci. Ma nel caso della Commedia il costo è più alto, perché la quantità di cose – nomi, libri, concetti – che Dante riesce a mettere nella storia che sta raccontando è davvero enorme. Perdere tutte queste cose è un peccato. E impadronirsene è una meraviglia. Se si legge la Commedia con l’attenzione che richiede, ciò che si ottiene alla fine non sono soltanto l’emozione e il piacere dati dal racconto, un racconto che parla ancora di noi in molti modi inaspettati: lo smarrimento, il senso di colpa, il viaggio coi suoi scenari prodigiosi, il pentimento, la redenzione, la felicità raggiunta… Si ottengono anche l’emozione e il piacere dati dall’imparare: sono due millenni di storia e di libri filtrati dall’intelligenza di Dante – la storia che lui conosceva, i libri che aveva letto, e la sua interpretazione dell’una e degli altri.
Ripeto, questo è un tipo di piacere che non ci è famigliare: c’è qualcosa di strano, per il medio lettore di romanzi odierno, in un piacere che implica uno sforzo. Eppure il piacere dell’apprendimento – conoscere cose disparatissime e remote dai nostri interessi attuali attraverso la mediazione di Dante – può essere tanto grande quanto il piacere dell’immaginazione. Spesso si parla della Commedia come di una enciclopedia, una definizione un po’ disgraziata che probabilmente ha l’effetto di respingere il lettore piuttosto che di attrarlo. Ciò che si vuole dire è che nella Commedia si trovano un’infinità di cose che non c’entrano col filo principale del racconto, e che ogni incontro o esperienza vissuta da Dante e raccontata in una manciata di versi ci apre un passaggio verso mondi strani e affascinanti. Naturalmente, le biblioteche sono piene di libri che parlano di altri mondi o di altri libri, e non per questo la loro lettura risulta particolarmente appagante. Per spiegare in che modo la Commedia si distingue da questi libri possiamo provare a leggere questi versi, tratti dal canto XXVIII dell’Inferno, nei quali il profeta dell’Islam, Maometto, predice la disgrazia di frate Dolcino, che si è macchiato del peccato di eresia e che verrà presto raggiunto e ucciso dalle truppe dei ‘crociati’ novaresi, istigati da papa Clemente V:

«Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve».
Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola:
indi a partirsi in terra lo distese.

Parafrasi: «Dì dunque a Frate Dolcino, tu che forse tra poco vedrai il sole, che – se non vuole raggiungermi presto all’inferno – deve procurarsi in fretta del cibo, altrimenti il freddo dell’inverno («stretta di neve») lo costringerà ad arrendersi all’esercito novarese». Dopo aver detto queste parole, Maometto, che si era già disposto a partire (alzando un piede da terra), si allontanò (distendendo il piede a terra).

È un passo molto semplice, e non particolarmente notevole dal punto di vista poetico. È una di quelle predizioni che le anime fanno a Dante: le cose andranno in questo o quest’altro modo, qualcuno (qualcuno che mentre l’anima parla è ancora vivo, lo stesso Dante a volte) subirà questo o quest’altro destino… Naturalmente, Dante-scrittore, che ambienta il racconto della Commedia nell’anno 1300, va a colpo sicuro perché sa già come sono andate le cose: quando il suo avo Cacciaguida gli predice che andrà in esilio, Dante è già in esilio; quando Ugo Capeto profetizza a Dante-personaggio lo schiaffo di Anagni, quell’evento ha già avuto luogo quando Dante scrive, eccetera. Ora, nello spazio immaginario dell’aldilà non c’è distinzione di epoche o di luoghi: a parte Dante, quelli che parlano sono tutti morti, e così Dante-personaggio viaggia liberamente nella storia e nella geografia umana incontrando ora un eroe della Grecia antica, ora un poeta latino del primo secolo, ora il primo re di Francia. 

Qui siamo nel girone degli scismatici, e Dante parla con Maometto (570-632). Perché mai Maometto, il profeta dell’Islam, sta tra gli scismatici? Perché le informazioni che Dante aveva su questo personaggio erano molto più scarse delle nostre, e perché Dante non aveva alcuna sensibilità o tolleranza nei confronti delle religioni che non erano il cristianesimo. In sostanza, Dante e i suoi contemporanei pensavano che l’Islam fosse semplicemente un’eresia nata in seno al cristianesimo, e che Maometto fosse stato, come scrive Brunetto Latini nel Tresor, un monaco che aveva voltato le spalle alla vera fede. Così, chi legge questi versi (con l’aiuto di un buon commento) non soltanto si ricorda di chi era Maometto ma impara anche che Maometto non è stato sempre lo stesso personaggio attraverso i secoli, e che epoche diverse possono avere idee diverse a proposito dei medesimi eventi storici, a seconda non solo delle informazioni che ne hanno ma anche e soprattutto dell’orizzonte d’idee e credenze nel quale queste informazioni vengono calate.
Dato che il tempo umano non conta nell’aldilà di Dante, a parlare della sorte di fra Dolcino (circa 1250-1307) può essere non un suo contemporaneo ma Maometto, cioè un uomo vissuto sette secoli prima di lui – la stessa distanza che separa noi da Dante – in tutt’altra parte del globo. Dolcino era un cristiano, come Dante. Predicava la povertà, la disobbedienza alle gerarchie ecclesiastiche, il ritorno alla vita semplice dei primi discepoli di Cristo. A considerarle oggi, le sue idee non sembrano tanto diverse dalle idee che Dante esprime spesso nella Commedia. Eppure Dante sta dalla parte dell’ortodossia, della Chiesa (e di quel Clemente V che, nella previsione e nell’augurio di Dante, finirà anche lui dannato); e destina Dolcino all’inferno: «Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, / … / s’ello non vuol qui tosto seguitarmi», dice Maometto. Si noti: Dolcino non è presente sulla scena, viene soltanto evocato da Maometto. Dante ha voluto citarlo, ha voluto dire che sarebbe finito all’inferno e, dato che non era ancora morto nel momento in cui si svolge l’azione del poema, si è inventato questa profezia.
Dante aveva ragione? Dolcino meritava il rogo in terra e la dannazione nell’aldilà? Oggi nessuno penserebbe una cosa del genere. Abbiamo imparato ad accettare, anzi quasi ad ammirare queste figure di settari un po’ folli, pronti a farsi uccidere in nome di una loro personale idea della vita e della religione. Anche in questo caso, come per Maometto, noi oggi la pensiamo diversamente da Dante: il tempo e il progresso delle ricerche ha modificato non soltanto le nostre conoscenze intorno a quei fatti ma anche il nostro modo di giudicarli.
Così è chiara la differenza tra la Commedia e l’enciclopedia. L’enciclopedia si sforza di darci un’informazione oggettiva sui fatti e sulle persone, e nei limiti del possibile non li giudica. Nella Commedia noi vediamo i fatti e i personaggi storici attraverso gli occhi di Dante: è molto difficile riuscire a separare ‘le cose così come sono andate’ da ciò che Dante ne sapeva e da ciò che Dante ne pensava. E tutto questo – questa parzialità, questo giudizio spesso arbitrario, capriccioso che è implicato nel racconto, e che si scontra con la nostra parzialità, col nostro modo di vedere le cose – è molto interessante.

Claudio Giunta

 

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