La Commissione ministeriale per lo studio della geografia: un’occasione storica

La Commissione ministeriale per lo studio della geografia: un’occasione storica

Nel marzo 2022, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha istituito la Commissione per la conoscenza e lo studio della Geografia nella scuola “per rilanciare lo studio di questa disciplina e fornire alle nuove generazioni gli strumenti per generare nuovi modelli di sviluppo, come previsto dagli obiettivi di sviluppo sostenibili fissati dall’Agenda 2030 dell’ONU”. Che significato ha questo atto istituzionale e quali conseguenze può comportare per l’insegnamento della geografia nella scuola, oggi spesso penalizzato dal sistema dell’istruzione italiana? Lo abbiamo chiesto a Riccardo Morri, presidente dell’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia (AIIG) chiamato a coordinare la Commissione.

Siamo abituati a sentire parlare della scuola – in maniera non sempre molto lusinghiera – quando si valutano le classifiche internazionali dell’Italia per la comprensione della lingua italiana e per le competenze matematiche. Quindi, al di là delle parole costruttive del comunicato del ministero, questa Commissione ministeriale sulla geografia può destare qualche preoccupazione perché sembra prendere atto di una situazione complessa. Che cosa ne pensa?

Per rispondere a questa domanda “provocatoria”, ci si deve muovere su due piani di riflessione. In primo luogo, bisogna partire dalla retorica che si è imposta dalla Dichiarazione di Bologna del 2000 in poi, in cui la revisione e l’omogeneizzazione dei sistemi scolastici europei è stata tutta improntata alla formazione di cittadini come imprenditori. In quei documenti tutto il processo educativo, dal primo ciclo all’università e al post-laurea, converge verso l’obiettivo di ridurre il più possibile il mismatch tra formazione e mondo del lavoro.

Poi però con la pandemia ci si è resi chiaramente conto che quello che effettivamente incide sulla qualità della vita, sulla responsabilità di condivisione degli spazi pubblici, sul riconoscersi come comunità, è un sentimento di “cittadinanza”. In geografia si parla da sempre di formare cittadini del mondo, tanto è vero che nel 2020 davanti alla Commissione europea è partito un processo di revisione di quanto stabilito nel 2000 a Bologna.

Quindi l’attenzione verso alcuni saperi di base oggi ha che vedere con aspetti di questo tipo: come ci preoccupiamo di ridurre il gap di conoscenze educative di base per avere dei cittadini responsabili capaci di collocarsi e di comportarsi in quanto cittadini nei diversi settori del mercato del lavoro? Questo vale in particolare per il contesto italiano, in cui c’è sempre stata questa contrapposizione tra il sapere umanistico, considerato meno funzionale all’inserimento nel mondo del lavoro, e il sapere tecnico.

In questo ambito, la realtà ha imposto di rivedere i bisogni formativi facendo diventare centrali due sfide. Innanzitutto la reazione alla pandemia che ha operato su due livelli: da un lato, la prevenzione a livello territoriale, visto che nella prima fase sono stati i comportamenti dei singoli a favorire prima la diffusione e poi il più efficace strumento per arginare il contagio; dall’altro lato, la via d’uscita da questa situazione e la riduzione progressiva dell’impatto dal punto di vista sociale ed economico, un aspetto che ha sempre una spiccata dimensione territoriale.

C’è poi un altro livello di riflessione, quello della questione della riconversione del modello economico: Next Generation, transizione ecologica ecc… Come si vincono queste sfide se non si ragiona in termini di categorie specifiche dell’ambito geografico? La transcalarità, la globalità, la permanenza sono competenze che maturano all’interno degli specifici percorsi di apprendimento della geografia.

Su questa base, nella Premessa del decreto viene richiesto alla Commissione di produrre pareri e suggerire le strategie per affermare e ribadire la preminenza che l’insegnamento della geografia deve avere nella scuola italiana proprio in relazione agli obiettivi dell’Agenda 2030, allo sviluppo sostenibile, all’educazione ambientale e all’educazione alla salute.

C’è quindi questo cortocircuito: da un lato si fotografa una situazione ex ante – relativa al perché sia stato trascurato l’insegnamento della geografia – e dall’altro si cerca di prefigurare un nuovo scenario, grazie a strumenti e strategie a costo zero (vale a dire senza aumentare il numero delle ore e senza intervenire sui quadri orari) che ci consentono di rendere più efficace l’insegnamento della geografia nella scuola, nel raggiungimento di questi obiettivi di medio e lungo periodo.

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Ma con la reintroduzione dell’educazione civica qualche anno fa non era già chiaro che la geografia avrebbe dovuto giocare un ruolo importante? Oppure c’è stata molta inerzia da parte della scuola? Parlare di Agenda 2030 e di tutela del patrimonio ambientale e monumentale non avrebbe dovuto coinvolgere e motivare maggiormente i docenti?

Qui effettivamente c’è un’inerzia, che però non è nel corpo docente della scuola, ma sta nella discrasia che esiste tra il decreto e le Linee guida. Nel preambolo delle Linee guida del ministero l’unica disciplina che viene citata esplicitamente come esempio del taglio multidisciplinare e interdisciplinare è proprio la geografia.

Il legislatore, però, non ha ritenuto, in maniera coerente con questa forte affermazione di principio, di attribuire e assegnare alle docenti e ai docenti di geografia il ruolo di coordinamento che di fatto in molti casi sono chiamati a esercitare. Ovviamente là dove questo è possibile, cioè dove ci sono docenti di geografia, perché va detto anche che esiste un grosso problema: da un lato ci sono interi settori del sistema scolastico in cui non è previsto l’insegnamento della geografia; dall’altro, dove c’è la geografia, non necessariamente viene insegnata da docenti abilitati al suo insegnamento.

Sta giustamente sottolineando come la situazione sia precaria, a macchia di leopardo, e questo vale soprattutto per la secondaria di secondo grado dove la geografia rischia veramente di scomparire.

Nelle Linee guida viene esplicitato il tema della cittadinanza digitale e quello dello sviluppo sostenibile, inoltre l’articolo 9 della nostra Costituzione fa riferimento esplicito al paesaggio e all’ambiente. E se ne parla nello stesso articolo in cui si tratta del ruolo della cultura e della ricerca per la promozione e lo sviluppo della società, un accostamento non certo casuale.

I riferimenti ministeriali sono chiari, ma esiste un problema di formazione dei docenti, un problema che prima di tutto è a carico dell’università e che ha coinvolto anche la Commissione ministeriale che io coordino. Questa Commissione si è già organizzata in due gruppi di lavoro, uno dei quali sta prendendo in esame i documenti relativi proprio al nuovo sistema di formazione dei docenti dei 60 CFU.

Il problema della formazione, però, riguarda ogni grado di istruzione. Nella scuola primaria, per esempio, la geografia vive uno squilibrio fortissimo, dal momento che la formazione universitaria prevede solo 9 CFU (8 di lezione frontale e 1 di laboratorio), un contesto molto limitato per fornire tutti gli elementi per insegnare geografia nella scuola primaria.

È un problema che risente anche della gestione del bagaglio di conoscenze e competenze con cui i bambini arrivano dalla scuola dell’infanzia. Qui le educatrici e gli educatori lavorano molto bene sull’affinamento di conoscenze e competenze di ordine spaziale, in particolare l’orientamento, la costruzione e la consapevolezza di sé in relazione a sé e agli altri. Allo stato attuale esistono però nella scuola primaria seri impedimenti strutturali alla valorizzazione di questo lavoro e si genera così una discontinuità penalizzante per l’educazione geografica di bambine e bambini.

Nella scuola secondaria di primo grado si presenta lo stesso problema, peraltro associato a un fenomeno raccapricciante legato alla geostoria, che sta comparendo anche qui. La geostoria non solo non esiste nell’ordinamento scolastico italiano delle vecchie “scuole medie”, ma improvvisamente, dopo aver popolato i quadri orari delle scuole secondarie di secondo grado, adesso sta facendo breccia anche nella scuola secondaria di primo grado. Questo significa che di fatto la geografia non viene insegnata, perché se in Italia c’è una preparazione di base di un certo spessore in storia, una simile preparazione diffusa in geografia non esiste.

Inoltre la scuola secondaria di secondo grado subisce l’impatto devastante della riforma Gelmini: un’intera generazione di studenti si è diplomata negli istituti professionali e di logistica e trasporti senza aver fatto una sola ora di geografia.

A questo proposito, c’è un interessante rapporto del 2018 dell’OCSE-PISA che misura le competenze di cittadinanza nelle ragazze e nei ragazzi di 15 anni, e per molti dei quesiti che chiamano in causa categorie geografiche (la dimensione dell’intercultura, la dimensione del viaggio, la competenza dell’osservazione, l’apertura e la disponibilità all’incontro…) l’Italia è in fondo alla classifica.

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Come AIIG, quali iniziative pensate di proporre in Commissione?

L’AIIG naturalmente porterà in Commissione la sua vasta esperienza sull’azione di monitoraggio che per tanti anni ha portato avanti proprio sullo stato di salute dell’insegnamento della geografia. Per questo abbiamo chiesto al ministero tutta una serie di informazioni che ci consentano di verificare gli strumenti che lo Stato possiede per monitorare e valutare l’insegnamento della geografia.

Nel sistema scolastico italiano c’è un problema di riconoscimento delle professionalità del docente di geografia. Se i docenti vengono chiamati a insegnare questa disciplina, devono possedere conoscenze e competenze specifiche, così come avviene per le altre discipline: purtroppo per la geografia questo automatismo non c’è, vuoi per le sacche di resistenza ancora della cosiddetta “atipicità”, vuoi perché per la geografia il monitoraggio non avviene in maniera puntuale e incisiva.

Abbiamo richiesto al ministero gli esiti dell’ultimo concorso per l’insegnamento della geografia (A21 per la geografia) e anche per le altre classi di concorso in cui c’erano domande di geografia (A11, A12, A13, A22). Valutando le percentuali di risposte esatte, crediamo sia importante suggerire un’azione efficace a livello di formazione universitaria dei docenti. I risultati di questi concorsi sono una cartina di tornasole, nel senso che della commissione nazionale che ha elaborato questi quesiti fanno parte esperti, specialisti e docenti della scuola ma anche esperti e specialisti del sistema universitario, e quindi là dove le percentuali di risposte non corrette sono elevate significa che esiste un problema formativo. Bisogna allora capire come ripensare la formazione universitaria e rafforzare la presenza di contenuti disciplinari all’interno dei previsti 60 CFU.

In questa prospettiva, va considerato anche lo stato critico di alcune cattedre universitarie di geografia, che sono sempre meno.

In effetti è stata fatta una riduzione negli anni, ma si è trattato di una riduzione trasversale di tutte le cattedre, dovuta in particolare al blocco del turnover e alla riduzione del finanziamento ordinario.

C’è però anche un problema di qualità dei contenuti dell’insegnamento. Va fatta un’azione di sensibilizzazione verso le università perché deve essere chiaro che deve esistere una circolarità tra ricerca e didattica: in quei corsi di laurea in cui è presente un solo insegnamento di geografia è irresponsabile non adoperarsi per accertare che chi poi andrà a insegnare nella scuola conosca le nozioni e le competenze di base di cartografia generale, di geografia fisica e umana, il concetto di paesaggio, di regione… Tutto ciò non può essere dato per scontato fino a quando non si attiverà un circuito virtuoso.

Questi sono nuclei e obiettivi formativi della scuola secondaria di secondo grado, ma chi fa i test di ingresso o si trova davanti i 300-400 studenti universitari del primo anno che arrivano dalla scuola si accorge che i futuri docenti queste conoscenze non le hanno, perché a loro volta non hanno avuto l’opportunità di ricevere un insegnamento adeguato. Credo che questo sia un circuito vizioso che va interrotto in università, lavorando sulla formazione dei docenti in ingresso per dare loro gli spazi e l’opportunità di rispondere alle indicazioni nazionali.

Da questo punto di vista sarebbe necessario verificare i contenuti delle indicazioni nazionali o queste hanno già una solidità che ci pone anche a livello europeo in una buona posizione? Quali sono le maggiori problematiche e le possibili azioni per riconoscere e promuovere il ruolo attuale della geografia?

Il possibile difetto delle indicazioni nazionali è di avere un taglio sbilanciato sulla dimensione generalista. Tuttavia questo aspetto lascia dei margini di azione e tutela la libertà di insegnamento. Una preoccupazione della Commissione, invece, è che tutto questo possa ridursi ad alimentare l’idea che la geografia non abbia sufficiente spazio e considerazione perché non li “merita”, in quanto disciplina “vecchia”, che non si aggiorna, come alcuni hanno affermato nel dibattito che si è scatenato quando è stata formata la Commissione. 

In verità, l’aggiornamento dei contenuti e dei metodi è una pratica costante anche in geografia (e non può essere diversamente): il problema è che la geografia nella scuola non ha le condizioni per affermarsi per i limiti storicamente imposti alla formazione dei docenti, alla definizione dei quadri orari e alla sua legittimazione sociale.

Basti considerare l’assenza di un voto specifico per geografia all’interno dei licei. Si tratta evidentemente di un mancato riconoscimento del ruolo che la geografia deve ed è chiamata a interpretare dal punto di vista formativo.

In questo, è vero, l’educazione civica avrebbe potuto rappresentare un’ottima occasione, ma anche in questo caso abbiamo assistito a un processo incompiuto di legittimazione: nelle Linee guida si pone come esempio la geografia, ma poi non viene data al collegio dei docenti e ai dirigenti scolastici nessuna indicazione chiara sul ruolo del docente di geografia.

Questo non significa che bisogna attribuire la maggior parte delle 33 ore di educazione civica alla geografia, ma, siccome questa è connotata come la disciplina “pivot”, le andrebbe riconosciuto un ruolo più trainante. Quindi va benissimo che tutte le discipline concorrano all’insegnamento dell’educazione civica, ma non può essere sufficiente tradurre in inglese i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 per fare educazione civica…

Mi viene in mente che oggi si potrebbe fare di più, per esempio riflettendo sulle cause dell’invasione russa dell’Ucraina: qui si affronterebbero il tema dei confini, il tema del concetto di Stato, la relazione tra cartografia e potere, una relazione fertilissima a livello didattico tra storia e geografia che non può prescindere dalle conoscenze geografiche.

La questione, quindi, non è rivendicare un primato della geografia rispetto alle altre discipline, però il fatto che la geografia sia funzionale all’apprendimento dei contenuti degli altri saperi non può realizzarsi se non esistono delle conoscenze consolidate di base finalizzate all’acquisizione di determinate competenze.

Anche in questo senso la Commissione è chiamata ad esprimere un parere. Sappiamo che è una chimera tornare nei licei alle 4 ore (2 ore per storia e 2 per geografia), perché entrano in gioco altre valutazioni legate ai meccanismi di reclutamento dei docenti e la definizione dei quadri orari. Però daremo un’indicazione chiara affinché si possa almeno reintrodurre il voto disgiunto della storia e della geografia nel biennio.

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Mi sembra anche che l’iniziativa RiGenerazione Scuola sia un’occasione importante da segnalare come possibilità di mostrare sul campo quali sono le competenze geografiche e quale contributo può dare la geografia nel formare i ragazzi e le ragazze.

In RiGenerazione Scuola c’è un richiamo esplicito allo sviluppo sostenibile, alla transizione ecologica e all’educazione alla sostenibilità e ambientale, ma c’è anche una importante dimensione implicita perché uno degli aspetti interessanti dal punto di vista geografico di questo progetto è proprio il tentativo di recuperare e valorizzare la funzione della scuola come “contesto/comunità di apprendimento”.

Questo è un aspetto geograficamente rilevante. Parliamo per esempio dell’arredo scolastico e della scomparsa delle carte geografiche nelle aule delle nostre scuole. Ogni volta che vado nelle scuole e mi confronto con le docenti e i docenti, loro concordano sul fatto che i ragazzi, considerando che nell’arco delle ore scolastiche non possono avere sempre lo stesso livello di attenzione, quando girano lo sguardo, se incontrano una carta geografica, possono avere altre opportunità di apprendimento, informali ma reali. In questo modo si contribuisce a creare un contesto generalizzato di apprendimento per cui in diversi momenti, didattici e non, è possibile per esempio andare a vedere dove si trovano Russia e Ucraina o prendere coscienza degli oltre 8000 chilometri di sviluppo costiero dell’Italia.

Questo è un elemento importante anche per tutti gli attori che concorrono ad alimentare i percorsi di educazione geografica. E questo anche rispetto al ruolo che un docente di geografia potrebbe avere nell’effettuare quelle analisi di contesto che ogni scuola è chiamata a realizzare.

In estrema sintesi, un’analisi di contesto corrisponde a alla mappatura dei bisogni formativi del contesto territoriale in cui la scuola opera. Non si tratta quindi di assolvere solamente a un adempimento amministrativo: sono le/i docenti di geografia, adeguatamente formati in università, che potrebbero dare il loro contributo in questo senso.

Per questo il lavoro della Commissione non verterà esclusivamente sui contenuti e sui metodi della disciplina. Si concentrerà anche sul disallineamento che c’è tra il processo di legittimazione scientifica e il processo di legittimazione pubblica e sociale.

Penso che un po’ tutti si preoccupino di non apparire ignoranti in geografia, ma al tempo stesso nel nostro Paese è una forma di ignoranza “ammessa”. Questo fenomeno è diffuso all’interno della cultura popolare.

Recentemente Claudio Tesauro, presidente di Save the Children Italia, ha messo in evidenza come la conoscenza e la cultura del territorio siano fondamentali per progettare interventi di programmazione territoriale orientati a riequilibrare le sperequazioni sociali nei confronti delle nuove generazioni. E dove si costruisce la conoscenza del territorio e l’educazione al territorio? Certo la nostra scuola non è in grado di farlo in maniera continua e sistematica, perché finora non ci sono state le condizioni per tradurre in pratica questa istanza di principio sul ruolo preminente della geografia.

Se avremo modo, si potrebbe anche organizzare una riunione congiunta con i colleghi e le colleghe della Commissione di storia: mi farebbe estremamente piacere, perché non è in discussione la relazione tra storia e geografia, anzi si avverte la necessità di reciproco riconoscimento. In un suo recente libro, Adriano Prosperi parla proprio della crisi dell’insegnamento della storia nella scuola, ma leggendolo ci si accorge che chiama continuamente in gioco la questione della “rappresentazione”, e questa è chiaramente una competenza di tipo geografico. Senza di essa anche la storia è “zoppa”, è una sedia con tre gambe.

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Vi aspettano mesi di lavoro intenso e speriamo fruttuoso.

Siamo molto contenti dell’istituzione di questa Commissione anche perché non ci sono moltissimi precedenti nella storia e per la prima volta rappresenta un riconoscimento istituzionale non equivocabile della nostra disciplina da parte del ministero. Siamo però anche consapevoli che purtroppo la durata della Commissione è legata alla durata del mandato del ministro.

In questo periodo stiamo cercando di acquisire più dati possibile, con l’aiuto delle direzioni generali e degli uffici scolastici. Come già detto, il nostro scopo è anche quello di capire quali sono gli strumenti di cui ministero dispone per rispondere ad alcune esigenze, restituendo un parere anche di quali ulteriori strumenti permetterebbero di approfondire la conoscenza e il monitoraggio del funzionamento del sistema scolastico italiano, non solo limitatamente all’insegnamento della geografia.

Mi auguro che anche il Rapporto annuale della Società Geografica Italiana “Viaggio nella scuola d’Italia”, che sto curando con numerosi studiosi e docenti di geografia, possa offrire una base di riflessione importante.

Ci saranno delle occasioni pubbliche per apprendere in itinere quali sono i risultati della Commissione? Mi riferisco per esempio al prossimo convegno dell’AIIG in ottobre: potrebbe essere un’opportunità per iniziare a discutere in generale con i docenti di geografia le maggiori emergenze?

Il decreto prevede che la Commissione invii una relazione periodica al ministro. Stiamo quindi lavorando per stilare un rapporto già a settembre. Vogliamo avviare anche un’azione di consultazione pubblica con gli stakeholder sia a livello di singoli esperti sia a livello di soggetti collettivi, attraverso questionari. Tra i soggetti interpellati ci saranno sicuramente i sodalizi geografici più importanti, ma è nostra intenzione consultare per esempio anche i gruppi editoriali con una forte tradizione nell’ambito dell’editoria scolastica geografica.

Da parte del ministero c’è stata anche un’apertura rispetto alla possibilità di creare una pagina web dedicata alla Commissione in cui progressivamente rendere pubblici e disponibili gli atti ufficiali, ma anche i pareri che acquisiremo e i dati che stiamo raccogliendo, in maniera tale che diventino il più possibile patrimonio comune.

Abbiamo invitato il 20 ottobre il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi al Convegno nazionale dell’AIIG, perché abbiamo deciso di assegnargli l’edizione 2022 del Premio Geografia Giorgio Valussi proprio per questo suo impegno nei confronti della nostra disciplina, un fatto importante nella storia delle relazioni con le istituzioni. La cerimonia di ottobre sarà quindi un’ulteriore occasione di incontro.

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Grazie per questa interessante panoramica che ci ha offerto una visione della geografia come una disciplina in fermento

Oggettivamente siamo in una fase storica in cui la domanda di geografia si va anche strutturando. Non dimentichiamo che negli ultimi 4-5 anni è ripresa anche in maniera consistente l’apertura di nuovi corsi di laurea magistrale in geografia nelle università italiane: accanto a quelli “storici” di Bologna, Torino e Roma (La Sapienza), hanno “riaperto” o sono nati nuovi corsi di laurea a Bergamo, Firenze, Genova, Matera, Milano, Padova… Ci saranno quindi sul mercato del lavoro sempre più geografe/i con le conoscenze e le competenze necessarie da inserire nel sistema produttivo e culturale italiano. Certamente bisogna creare un contesto favorevole per far sì che chi la geografia la conosce possa avere anche la possibilità di applicarla ed esercitarla, a scuola e non solo.

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